sabato 27 dicembre 2008

BUONE FESTE !



E’ Natale ogni volta
che sorridi a un fratello
e gli tendi la mano.
E’ Natale ogni volta
che rimani in silenzio
per ascoltare l’altro.
E’ Natale ogni volta
che non accetti quei principi
che relegano gli oppressi
ai margini della società.
E’ Natale ogni volta
che speri con quelli che disperano
nella povertà fisica e spirituale.
E’ Natale ogni volta
che riconosci con umiltà
i tuoi limiti e la tua debolezza.
E’ Natale ogni volta
che permetti al Signore
di rinascere per donarlo agli altri.

Madre Teresa di Calcutta

giovedì 18 dicembre 2008

Lavorare stanca soprattutto le donne

Tra ufficio, casa e figli, sono mediamente impegnate
nove ore al giorno. È giusto mandarle in pensione cinque anni più tardi?

Lavorare stanca
soprattutto le donne
di MAURIZIO RICCI


LAVORARE è donna. Come le donne, del resto, sanno benissimo. Gli uomini lo sanno un po' meno. Ma i dati non lasciano dubbi. L'Istat li ha raccolti in un volumetto nello scorso settembre, dal titolo beneaugurante "Conciliare lavoro e famiglia" e non ammettono replica: trattandosi di indagini campionarie, quei dati sono stati forniti dai diretti interessati, cioè noi.

E, dunque: fra lavoro a casa e in ufficio, le donne iniziano prima, finiscono dopo, dormono meno degli uomini e delle altre europee, hanno meno tempo libero. Si sudano la giornata sette giorni su sette, senza staccare mai, neanche al weekend. Nessuna di loro, quanto torna dall'ufficio, si sbatte in poltrona, senza più muovere un dito. Mentre così fa un italiano (maschio) ogni tre. Basta questo per respingere, in linea di principio, l'idea che anche le donne restino al lavoro cinque anni di più, rinviando la pensione agli stessi 65 anni degli uomini, come Brunetta e altri sono tornati a proporre?

A discuterne, anche fra loro, sono, per prime, le donne. E, allora, vediamo com'è la situazione. Anzitutto, il superlavoro al femminile non è un'anomalia tutta italiana. Gli studiosi registrano che in nessun paese, neanche in quelli in cui la parità uomo-donna (come in Scandinavia) è più spinta, ci sono state davvero, in questi ultimi decenni, trasformazioni radicali nella divisioni dei compiti fra l'universo maschile e quello femminile.

Ma in Italia è peggio. Ed è inutile invocare l'esposizione solare, tradizioni antiche, la latitudine in genere, insomma, la cultura mediterranea. La situazione della donna nella società, in ufficio, a casa, risulta peggiore in Italia, anche rispetto ad altri paesi maschilisti e mediterranei, come Spagna e Grecia. L'Istat ha provato a misurare le differenze rispetto all'Italia di 15-20 anni fa, ma sono minime. E la politica accompagna, in piena sintonia, questo guardare indietro: l'Italia è all'ultimo posto, in Europa, anche nei pacchetti di aiuti per i figli, sia in termini di denaro che di servizi offerti, dall'asilo nido al tempo pieno a scuola. A pagare questo mix politico-sociale-culturale-economico non sono, però, solo le donne, ma tutti noi.

Il primo effetto di questo sovraccarico è, infatti, che sono di meno, rispetto agli altri paesi, le donne che se la sentono e/o riescono ad andare a lavorare fuori casa. Il numero di persone che, in Italia, lavora, in fabbrica o in ufficio, rispetto a quelli in età per farlo (gli economisti lo chiamano il tasso di attività e comprende anche i disoccupati) è infatti il più basso d'Europa, Malta esclusa: solo sei italiani su dieci hanno una busta paga o sono disoccupati. In Europa, in media, sono sette su dieci.

Ma la differenza è tutta una questione di sesso. Il tasso di attività degli uomini, più o meno, è in linea con la media europea. Sono le donne a risultare più "inattive" del resto del continente. Ovvero, a lavorare solo a casa. Da noi, questo è vero per la metà delle donne. In Europa, solo per un terzo. Questa esclusione non avviene gratis, anzi, costa parecchio. Esattamente 260 milioni di euro ogni anno. Di tanto il paese sarebbe più ricco, se le italiane andassero in fabbrica o in ufficio quanto gli uomini. La Banca d'Italia calcola, infatti, che il il Pil, il prodotto interno lordo, sarebbe più alto di oltre il 17 per cento l'anno.

Il secondo effetto è che avere figli diventa uno stress sempre meno sopportabile. Il risultato è la bassa fecondità delle donne italiane. Da trent'anni, ormai, le coppie italiane non arrivano, in media, a fare almeno due figli: il risultato è che la popolazione, tolti gli immigrati, si riduce. Si sta più larghi, è vero, ma l'Italia invecchia: ci sono troppi pensionati e troppi pochi lavoratori attivi. Quindi meno contributi per finanziare le pensioni. E il sistema pensionistico rischia di implodere.

A chi tocca l'esame di coscienza, se le donne hanno troppo da fare a casa per trovarsi un lavoro in ufficio o lavorano troppo, se vanno anche in ufficio? Anzitutto alla politica. Avere figli molto piccoli e riuscire a mantenere una busta paga è un pesante gioco di prestigio. Solo il 6 per cento dei bambini italiani sotto i 2 anni ha un posto (gratis) in un asilo nido pubblico, per nove ore al giorno. In Belgio siamo al 30 per cento, in Francia al 40, in Portogallo al 12 per cento.

E' un panorama, comunque, diseguale: le mamme inglesi ed olandesi stanno peggio delle nostre, in Germania poco meglio. L'Italia non brilla, tuttavia, neanche per la qualità degli asili nido: nell'apposita classifica siamo al decimo posto su 15. In Danimarca, ad esempio, c'è un insegnante ogni tre bambini, da noi ogni sei. La situazione migliora per i bambini più grandicelli: l'87 per cento degli italiani fra i 3 e i 6 anni ha un posto in una scuola materna pubblica, una percentuale in linea con la Francia e migliore di molti altri paesi.

Ma peggiora di colpo, quando si arriva alle elementari. Il grosso degli scolari italiani torna a casa all'ora di pranzo e, se mamma lavora, o è a part time o ci vuole nonna. Il tempo pieno è una realtà di massa solo nelle grandi città del Centro Nord, dove copre circa la metà degli scolari.

L'altro esame di coscienza, naturalmente, tocca a mariti e padri. Se si guarda alle coppie con figli sotto i 6 anni, si vede che, in media, fra casa e ufficio, mamma lavora 9 ore al giorno. Papà, otto. La differenza è tutta nel lavoro familiare. Il 30 per cento degli italiani (maschi) a casa non fa neanche un minuto di lavoro per la famiglia: solo l'8 per cento dei padri svedesi e il 19 per cento di quelli francesi non vede motivo per rendersi utile.

E' un quadretto vecchio di secoli: papà in poltrona e mamma in piedi con la scopa. Ciò che conta è che è sempre lo stesso. In casa, dicono gli studiosi, la situazione in Italia è "inalterata". Di fatto, se si confronta la situazione a fine anni '80 e quella di oggi, le differenze complessive sono minime. Le italiane dedicano al lavoro familiare, in media, 5 ore e 20 minuti ogni giorno, un'ora in più di francesi e tedesche, mezz'ora in più delle spagnole. E la domenica? Uguale, anzi un po' di più: 5 ore e 32 minuti. E papà, intanto? In media, dedica al lavoro familiare un'ora e mezza al giorno, più o meno quanto uno spagnolo, ma tre quarti d'ora in meno di francesi e tedeschi.

La domenica è un po' più impegnativa: al lavoro in casa, il maschio italiano dedica, in media, due ore del giorno di festa. Ma di quale lavoro familiare stiamo parlando? Grosso modo, papà va di trapano e martello, ripara elettrodomestici, pianta quadri nel muro e sorveglia le gomme della macchina di famiglia. Pulire, rassettare, preparare i pasti è, per il 90 per cento delle famiglie italiane, un lavoro da donne. Anzi, un lavoro esclusivamente femminile, se parliamo di lavare panni o stirare.

L'Istat coglie qualche barlume nuovo. Se papà è laureato (e mamma pure), il contributo in famiglia sembra essere più sostanzioso, soprattutto per quanto riguarda la cura dei figli che, peraltro, a ben vedere, è sempre meglio che fare il bucato. Piccoli segnali, comunque, limitati alle fasce più alte di istruzione. Forse, il problema è la riforma della scuola.
(17 dicembre 2008)
fonte: Repubblica

PENSIONI: PD APRE ALLA PROPOSTA BRUNETTA SUI 65 ANNI PER LE DONNE

(ansa.it) ROMA - Il ministro delle Pari Opportunità del governo Ombra del Pd Vittoria Franco apre alla proposta del ministro della Pubblica amministrazione e dell' Innovazione Renato Brunetta sulla pensione alle donne a 65 anni a condizione che si investa sul lavoro femminile. "Le lancio una proposta - scrive la senatrice Franco in una lettera aperta al ministro - di alleanza o, se vuole, una sfida, tutta politica, tutta a favore delle donne: noi del Pd sosteniamo le sue proposte sulla equiparazione dell'età pensionabile e Lei sostiene il nostro progetto che prevede misure per promuovere l'occupazione femminile e favorire la conciliazione fra lavoro, maternità e carriera. Perché è proprio qui il problema, nella maternità che è ancora un ostacolo all'accesso al mercato del lavoro, alla carriera e alla realizzazione delle donne in un lavoro gratificante".

Il ministro Ombra che si dice "d'accordo" sul fatto che "molti, soprattutto della destra per la verità, vogliono le donne 'angeli del focolare', tutte casa e famiglia" si riferisce al disegno di legge, depositato al Senato (con il numero 784), che prevede appunto misure per promuovere l'occupazione femminile". "Per le donne laureate il differenziale salariale può arrivare anche al 25% in meno. Il livello di occupazione femminile al Sud è intorno al 31%. Ma quelle stesse donne inattive rinunciano anche a fare figli perché il futuro della coppia e della famiglia è più incerto" ricorda Vittoria Franco che lamenta la mancanza di investimenti del governo sostenendo che "non possono bastare i risparmi realizzati con l'equiparazione dell'età pensionabile". "Ci dia - conclude la lettera aperta al ministro Brunetta - qualche segnale che ci consenta di avere fiducia e per non pensare che questo Governo voglia di nuovo intrappolare le donne in una ulteriore discriminazione: più povere, più oberate di cura e pure in pensione più tardi degli uomini".

domenica 7 dicembre 2008

La CGIL: «Dal governo nessun aiuto alle donne»

Si è svolta oggi, venerdì 5 dicembre 2008 presso la Camera del Lavoro di Genova l’assemblea delle donne iscritte alla Cgil.
Il Coordinamento Donne della Camera del Lavoro di Genova, ritiene inaccettabili le misure assunte dal Governo rispetto ai tagli alla sanità, alla scuola, alle misure in materia lavorativa – utilizzo del part-time anche per orari brevi; inoltre, ritiene inutile, in un momento di crisi economica e produttiva la detassazione degli straordinari (che ovviamente penalizza le donne). In aggiunta, tra i provvedimenti adottati dal Governo mancano gli incentivi rivolti a favorire l’occupazione femminile, ma restano le «dimissioni in bianco».

Questi provvedimenti, che rappresentano l’esempio della filosofia di fondo che ispira questo Governo, portano ad una deregolamentazione del mercato del lavoro penalizzando le fasce deboli, tra cui le donne.
Tutto ciò - insieme al modello di welfare ipotizzato nel Libro Verde che vede l’intervento pubblico deresponsabilizzarsi e defilarsi scaricando sulla famiglia il lavoro di cura - porterà inevitabilmente al «ritorno a casa« delle donne.

Le donne della Cgil denunciano come il dissenso di chi queste cose prova a dirle, viene messo prepotentemente a tacere da parte del Governo; il recente episodio della revoca della nomina alla Consigliera Nazionale di Parità che aveva fortemente criticato le misure governative per l’impatto negativo che avrebbero avuto verso il genere femminile, ne è un esempio eclatante.

Il Coordinamento Donne della Camera del Lavoro di Genova ritiene che le condizioni per uno sviluppo di qualità e per superare la difficile congiuntura economica debbano avere un segno esattamente opposto.

E’ necessario: rimettere al centro lo sviluppo, il sostegno all’occupazione femminile, la lotta alla discriminazione nella carriera, la formazione, la stabilità del posto di lavoro, la qualità della vita, la salvaguardia del reddito da lavoro e da pensione; e ancora: una politica seria sui servizi sociali e sulla casa a partire dalla conferma dell’universalità dei diritti di cittadinanza.

Il Coordinamento Donne della Camera del Lavoro di Genova ribadisce inoltre il proprio impegno e la propria determinazione nel fronteggiare l’attacco rivolto all’autodeterminazione delle donne riaffermando con forza il principio fondamentale della laicità dello Stato.

Per tutti questi motivi il Coordinamento donne della Cgil genovese invita la città a partecipare compatta allo sciopero generale del 12 dicembre 2008.

fonte:diariodelweb.it

CENSIS: MOLTE LE DONNE MAGISTRATO, MA POCHE IN PARLAMENTO

(AGI) - Roma, 5 dic. - “Continuano a costituire aree di parziale esclusione sociale e lavorativa per le donne, da un lato le posizioni di vertice nell’ambito della rappresentanza politica e del governo economico, e dall’altro le aree a forte connotazione tecnologica. Lo si legge nel rapporto annuale del Consis.

“Le donne sono infatti circa un quarto degli uomini tra i legislatori, dirigenti e imprenditori, ma occupano piu’ della meta’ delle posizioni esecutive”, sottolinea il rapporto, “Nell’area della famiglia e della cura, inoltre, e’ evidente il sovraccarico femminile, sia per le ore dedicate al lavoro familiare, superiori a quelle delle donne di altri Paesi e di molto inferiori a quelle degli uomini, sia per il sostegno delle reti di mutuo aiuto e di cura nella famiglia allargata”.

Esiste comunque anche “una serie di fenomeni positivi, fino a sfiorare situazioni di dominio delle donne in alcune particolari aree. Rispetto all’ambito lavorativo, il riferimento va a tutte le professioni intellettuali, ma in particolare ai medici (35,7%) e agli specialisti in scienze della vita (55%), ai dirigenti di organizzazioni nazionali e sovranazionali (40,5%), alla magistratura (26,3%), alla pubblica amministrazione (47,2%), ai servizi di ricerca e sviluppo (44,5%), alle attivita’ immobiliari e ai servizi alle imprese (44,1%). L’area della gestione di impresa e’ un’altra area che mostra interessanti passi avanti nella posizione delle donne. In particolare il management e’ uno dei pochi settori nei quali l’Italia ha recuperato rispetto all’Europa per quanto riguarda la presenza femminile: nel 2006 avevamo il 32,9% dei manager donne contro il 32,6% in Europa”.

In particolare negli ultimi tre anni le donne in magistratura sono aumentate di oltre il 10 percento, e del 24 le dirigenti di organizzazioni di interesse nazionale e sovranazionale.(AGI)

Nic

lunedì 1 dicembre 2008

Bindi:Non possiamo farci dilaniare tra dalemiani e veltroniani

di Itti Drioli - da Quotidiano Nazionale


Rosy Bindi, nel partito democratico sembra che esistano solo dalemiani e veltroniani intenti a dilaniarsi. Voi ex popolari che ci state a fare? Assistete impotenti?
«Impotenti no. Alcuni sono alleati con D'Alema, altri con Veltroni e poi c'è chi, come me, mantiene una posizione di autonomia, convinta come sono che non possiamo essere la quarta evoluzione del partito della sinistra. Perciò non possiamo farci dilaniare da una gestione poco trasparente da una parte e percorsi paralleli dall'altra».

Equidistante da Veltroni e da D'Alema?
«Perché, del progetto di Rutelli non vogliamo parlare? Penso al problema dell'adesione al Pse: io non ho chiesto a Fassino di diventare cattolico democratico e lui non può chiedere a me di diventare socialdemocratica. Ma da questo a dire, come ha fatto Rutelli: "O così o usciamo dal partito", c'è una bella differenza!».

Ma com'è che siete arrivati a questo punto? Anche lei come il dalemiano Latorre pensa che la leadership di Veltroni sia fallimentare?
«Latorre non ha titolo per dirlo, perché non si evita una gestione fallimentare costruendo un'altra cosa, come si sta facendo con Red. Io sono molto critica con la gestione chiusa e tutta in difesa della maggioranza ma lo sono altrettanto con chi gli antepone un partito nel partito. E' normale che in questo partito ci siano due televisioni e tre giornali?».

Tre? C'è l'"Unità", c'è "Europa" e quale altro?
«Il "Riformista" dove lo mettiamo? Sembra che sia nato solo per parlare del Pd! E non si può dire che non esprima una linea».

Torniamo al segretario.
«Dovrebbe rivedere molto della sua politica, anche lui. Non si può venire a sapere dai giornali di 80 incarichi nel governo ombra. E non si può far eleggere il segretario del Lazio a maggioranza semplice in un partito nato dalle primarie».

E' paura o protervia?
«Direi che c'è una tentazione permanente di normalizzazione. Persino le primarie dei giovani. Dovrebbero essere un momento di massima apertura, chi se non i giovani? Invece la maggioranza ha indicato un candidato e gli altri erano tutti sfidanti. E c'è stato pure un ritardo enorme nel diffondere i risultati».

Dunque, il coordinamento di oggi è cruciale per avviare un chiarimento.
«Mah, ci si riunisce quasi ogni settimana, ma non è detto che le cose più importanti accadano là. La vicenda della commissione di vigilanza lo insegna: avevamo deciso tutti di puntare su Orlando, salvo imparare che qualcuno lavorava con la maggioranza. L'operazione Villari era preparata».

Dalla Vigilanza come ne uscite?
«Non c'è altra strada che abbandonare i lavori».

Tutto questo pasticcio per Di Pietro. Secondo i dalemiani ha creato troppi danni al Pd.
«In commissione di vigilanza, non siamo stati inchiodati a Di Pietro per subalternità politica, ma per correttezza istituzionale. L'Idv è l'unico gruppo parlamentare che non ha nessun incarico istituzionale. E non lo si può escludere perché non piace il suo modo di fare opposizione».

Lei dunque non se ne vuole liberare.
«L'alleanza con di Pietro può essere scomoda, ma - piccolo particolare non trascurabile- è stata sancita dagli elettori. Il resto, alleanze con l'Udc o altro, è tutto da costruire. E ce ne vuole...».

DIRITTI DEL CITTADINO - CONFERENZA NAZIONALE SUL WELFARE DEL PD "PERSONA, FAMIGLIA, COMUNITA'

DIRITTI DEL CITTADINO - CONFERENZA NAZIONALE SUL WELFARE DEL PD "PERSONA, FAMIGLIA, COMUNITA' ". LETTA: "TROVARE IL CORAGGIO DI CAMBIARE" BINDI: "NOI QUALCOSA PER IL WELFARE LO STAVAMO FACENDO"

(2008-11-28)

“Quella che stiamo attraversando è la più grave crisi economica e sociale della nostra vita. Nessuno di noi ha mai vissuto nulla del genere. La crisi investirà la politica, l'economia, la società. La crisi metterà in discussione il sistema di protezione sociale, le nostre certezze, il welfare italiano così come si è venuto a creare nel corso del ventesimo secolo.” Ha affermato Enrico Letta all'incontro «Persona, famiglia, comunità» verso la Conferenza Nazionale sul Welfare del Pd. Che si è tenuto ieri e oggi a Roma

Per l’onorevole Letta per uscire dalla crisi “dobbiamo trovare il coraggio di cambiare, di innovare, di riformare. L'incontro di oggi è solo l'inizio di un percorso di discussione e ascolto lungo quattro mesi che ci condurrà, in primavera, alla Conferenza nazionale per un nuovo welfare del Partito Democratico.” L’ obiettivo del Pd è costruire “un welfare moderno e riformista in grado di rispondere davvero ai nuovi bisogni e alle nuove aspettative di una società che si trasforma giorno dopo giorno.”

La Sala Fellini del Roma Eventi oggi ha visto la partecipazione di personalità che hanno offerto le loro proposte per rilanciare il lavoro e uscire dalla crisi. “Un appuntamento che apre un percorso che si articolerà nei prossimi mesi attraverso conferenze locali e territoriali e incontri tematici specifici, proprio oggi che il Governo prende decisioni importanti per il nostro paese” ha spiegato Andrea Pancani, il giornalista moderatore, nell’introdurre la prima sessione dei lavori dal titolo “Welfare formato famiglia. Società, sussidarietà, nuovi servizi”.

“Il Partito Democratico accetta la sfida lanciata dal ministro Sacconi con il Libro Verde sul Welfare. – ha sottolineato Letta nel suo intervento - Accetta ma rilancia. Non ci interessa tenere in piedi un modello mediterraneo di welfare costruito sulla centralità del maschio adulto italiano. Noi non ci accontentiamo di garantire solo chi già è garantito, ma i non tutelati dal welfare. “

“Il sistema del welfare italiano, - ha proseguito Letta - non è giusto, le disuguaglianze sono aumentate, tra il Nord e il Sud del Paese e sale il numero dei poveri. I numeri parlano chiaro. Il rapporto tra il reddito del 10% della popolazione più ricca e il 10% di quella più povera - è pari a 11,6, inferiore solo a quello di Stati Uniti e Gran Bretagna, il cui sistema di promozione sociale si fonda però sulla meritocrazia. Solo il 13,3% degli italiani nati in una famiglia di operai riesce a fare il salto sociale. Tutti gli altri - quasi 9 su 10 - devono accontentarsi. La conoscenza è garanzia di opportunità, crescita collettiva, meritocrazia. Le scelte fatte finora dal governo Berlusconi si sono concentrate prevalentemente sulla riduzione delle risorse per la scuola e per l'università. Non è la strada giusta tanto più che proprio questo governo avrà il compito di rappresentarci in Europa nella fase delicatissima in cui si negozierà un'Agenda di Lisbona 2, per rilanciare la strategia di crescita economica e sociale fondata proprio sul nesso, inscindibile, tra competitività, conoscenza e politiche sociali. Lo hanno detto in Parlamento sia Walter Veltroni sia Pierluigi Bersani: per uscire dall'emergenza sono necessari un supporto consistente alle famiglie e misure efficaci a favore delle piccole e medie imprese.”

Per Letta bisogna “cambiare in profondità il corso delle cose e incidere sulla vita concreta delle persone. Sulla famiglia, specie quella numerosa sulla quale gravano carichi sempre più insopportabili, recuperare il lavoro impostato da Rosi Bindi nella scorsa legislatura. Le famiglie che già ci sono chiedono servizi di supporto alla cura dei figli e all'assistenza degli anziani. Chiedono asili nido, flessibilità negli orari di lavoro, innovazione negli strumenti di tutela del reddito. Le famiglie che intendono formarsi hanno, invece, bisogno di stabilità, politiche abitative, promozione del ruolo della donna sul lavoro. Per entrambe le risposte giunte finora sono state insufficienti.”

“Basta fermarsi ancora sulla definizione di famiglia” ha affermato l’on. Rosi Bindi, considerandolo “uno dei problemi meno urgenti in questo momento, ed attenendosi alla definizione che ne da la Costituzione, ha proseguito “c’è la vita delle persone normali con figli e anziani, il problema non è “il diritto di andare all’asilo, che è dato a tutti, il problema è che gli asili non ci sono”. La famiglia nel nostr paese è molte cose, ha spiegato la Bindi, la crisi per prima “impatta sulle famiglie, quando la Costituzione recita ogni lavoratore deve percepire uno stipendio che permetta di vivere una vita dignitosa alla propria famiglia, in Italia ciò non sempre avviene, altra pecca, il sistema fiscale complicatissimo, la leva fiscale va ristrutturata. Il tasso lavorativo femminile italiano è il più basso in tutta Europa, le donne pagano più il precariato, e se lavorano pagano le difficoltà legate alla famiglia. I servizi per i non autosufficienti e gli anziani che implicano dei costi, sono visti come problemi, in altri paesi come la Germania sicuramente hanno dei sistemi ben diversi da quelli proposti da Sacconi nel suo Libro Verde, dove manca una visione di welfare, di stato che si fa carico dei cittadini. Il Pd deve guidare il Governo su questi punti. Le misure prese in questi giorni non vanno in questo senso, la 112, la vera finanziaria presuppone ben altro che spiccioli donati con la Social Card. Proposte innovative. – ha proseguito Bindi - Il sistema demografico sta cambiando, un detto africano ci rappresenta “un paese dove un nonno aveva 5 bambini, ora un bambino ha 5 nonni”. Ci rimproverano di non aver fatto riforme, noi qualcosa per il welfare l’abbiamo fatta, un coraggio che loro non hanno e sperperano il patrimonio per i servizi del nostro paese: il Pd forte nelle denuncie e nelle proposte. – ha concluso la Bindi - Tutte tematiche legate alla famiglia che il Governo Prodi stava affrontando, ma che per l’attuale Governo sembrano non esistere.”

“Il libro verde doveva essere il punto di avvio di un percorso, ma ci lascia perplessi per la generalità , non si vede una strategia, mancano temi come l’immigrazione, gli anziani, visti come problemi, per non parlare del terzo settore” ha spiegato Cristina De Luca, sottosegretario di stato al Ministero della Solidarietà Sociale nel secondo Governo Prodi. “Risposte parziali, quando l’Italia ha bisogno di cambiamenti, modalità, metodologie, altrimenti non si va da nessuna parte. – ha proseguito De Luca – Ripartiamo dal welfare per le persone, le donne, il lavoro, la famiglia, l’infanzia, l’impoverimento al quale si risponde con la Social Card, quando si dovrebbero chiedere di che tipo di welfare abbiamo bisogno, e riprendere alcune tematiche chiedendosi cosa significa la sussidiarietà, la legge 328 del 2000, male applicata, ha in se una rinascita, - ha concluso De Luca - rimettere in gioco il ruolo dello Stato, delle Regioni….per costruire il welfare del futuro”.

“L’impianto del centro-destra sul welfare, accentua un filo assistenzialistico ai minimi livelli – ha spiegato Anna Serafini, eletta al Senato per la circoscrizione Veneto nel secondo Governo Prodi – un impianto imprigionato in rischi e paura, dove non si vedono le opportunità dell’Occidente nel contatto con lo straniero immigrato. Bisogna agire sull’attuale crisi lavorando sul tasso di povertà minorile che ci caratterizza, che è tra i più alti, risollevare le famiglie con più figli dallo stato di povertà, realizzare quel Fondo Infanzia e Adolescenza fatto da noi, la legge 0-6 anni sull’asilo e la riduzione delle disuguaglianze sociali”.

“Una menzogna offerta a 1,3 milioni d’italiani – così ha definito la Social Card il Segretario del PD di Vercelli e capolista al collegio Piemonte 2 della Camera dei Deputati, Luigi Bobba “potevano semplicemente aumentare le pensioni o gli stipendi o… la detassazione sugli straordinari…insomma un Natale che non cambia le prospettive.” Per Bobba la natalità è sinonimo di futuro e l’Italia in questo è messa male, premiare le famiglie che investono sul futuro, e come ha ribadito Letta “non aver paura di scrivere il futuro. Bisogna prendere spunto dalla Francia sia per quel welfare formato famiglia di cui parlava Letta che per il problema dell’occupazione femminile che ha evidenziato la Bindi” ha concluso Bobba, annunciando che su quest’ultimo punto si sta lavorando su una proposta.

Dell’apporto dell’associazionismo ha parlato Gianluca Lioni, responsabile Terzo Settore Partito Democratico, spiegando che il “mondo del terzo settore ha un ruolo da protagonista nello scrivere il Welfare Italiano, perché è parte sociale lo dice la Costituzione, perché continuamente presidia l’esclusione sociale, la povertà …va incontro ai bisogni e alle necessità. La crisi mondiale ha messo in soffitta molti concetti che rendevano il sociale un impaccio, riscoperta del sociale, Obama ha vinto parlando del sociale, di distribuzioni di ricchezze. Nel mondo c’è una nuova consapevolezza, cosa impensabile anni fa. Ovviamente non agli estremismi, equilibrare i bisogni e non solo stato sociale.” Anche Lioni ha concluso con un proverbio africano che recita “per crescere un bambino non bastano due genitori ma un intero villaggio”, per dire che il cittadino ha bisogno della comunità, di sconfiggere l’egoismo, anche per sentirsi più cittadini e meno utenti”.

“Si è rotto l’equilibrio tra crescita economica e sociale – ha stigmatizzato Paolo Beni, presidente dell’Arci che reputa il Libro Verde un “grande bluff, in quanto non offre a tutti le stesse opportunità, e implica un’idea di società che chi può va avanti altrimenti riceve un po’ di carità. Innovare, spostare il baricentro dall’assistenzialismo alla prevenzione, valorizzando elementi che mettono al centro le persone e il benessere. Nella 328 c’è qualcosa da rispolverare, il nostro, il terzo settore gioca un ruolo chiave che aiuti ad affermare una diversa cultura, - conclude Beni – l’associazionismo può dare di più di quello che gli si sta chiedendo”.

Della stessa idea di Beni è Andrea Olivero, presidente delle Acli - che ha posto una domanda chiave “costo o investimento?” e ha risposto: “il welfare è un investimento, non solo un costo e non deve essere statale, inefficiente e sprecone. Di fronte alla crisi la risposta è investire , assistere, scommettere, riattivare i soggetti che vogliono scommettere sul futuro. Il welfare che fa capire che nessuno è solo nella propria scommessa, attraverso gli ammortizzatori sociali. E dallo sviluppo umano si arriverà allo sviluppo economico, ma attraverso un modello che si fa comprendere e accettare perché non si ragione su uno stato ma su una società, noi stiamo sulle dinamiche e vogliamo poter ragionare sul modello che permetta il reale funzionamento di una società democratica – ha concluso Olivero – per dare voce anche alla parte che non ascoltiamo”.

Giovanni Salvadori, assessore alla sicurezza sociale della Regione Toscana, ha spiegato “il fondo per non autosufficienza” che stanno approvando in Toscana, “legato al tema dello sviluppo. Il TAR minaccia le scelte di welfare sugli anziani, utilizzo d’indennità d’accompagnamento. Abbiamo speso 75 milioni di euro sulla disabilità, si spendiamo tanto – conclude Salvadori – ma dobbiamo spendere meglio sulla non autosufficienza. Sull’immigrazione superare il binomio immigrazione – sicurezza. I comuni italiani non sanno come chiudere i fondi sociali con il taglio di 300 milioni di euro, che in due anni diventeranno il doppio….una battaglia che dobbiamo iniziare”.

Ugo Ascoli, l’assessore alla Conoscenza, Istruzione, Formazione e Lavoro delle Marche: “il libro verde punta ad un welfare negoziale: chi non sta nelle categorie stabilite si deve accontentare…invece bisogna riprendere i 4 modelli che abbiamo costruito e la 328, rivalutati e coraggiosamente imposti. Grave il taglio del 60% alle politiche sociali, siamo in emergenza non c’è più welfare o forse non c’è mai stato, ma così non ci sarà più. Regioni e Comuni stiamo lavorando, ma dobbiamo porci obiettivi importanti. Sul libro verde non c’è mai la parola cittadino, ma solo persona da aiutare se lo merita, altrimenti se la vedano da soli”.

Mario Sberna, fondatore e presidente dell' Associazione nazionale famiglie numerose ha affermato che bisogna partire "chi fatica ed è succube di ingiustizie. Ringiovanire questo paese anziano con strumenti di coraggio. Sentire la voce del futuro del nostro paese: la voce dei nostri figli". (28/11/2008-ITL/ITNET)

venerdì 21 novembre 2008

Forum con Rosy Bindi nella redazione dell'Unità

di Andrea Carugati ed Eduardo Di Blasi - da L'Unità


Onorevole Bindi, ci troviamo a discutere di due sentenze molto importanti, quella su Eluana e quella sul G8 di Genova. Poi c'è il caso Vigilanza Rai, il movimento degli studenti. Partiamo dal G8.
«Sono tutte questioni che ci interrogano sulla nostra democrazia. Mi auguro che la sentenza di Genova, che assolve i vertici delle forze di polizia, non autorizzi nessuno a pensare che vicende del genere si possano ripetere semplicemente mettendosi una maschera. Certo, quella sentenza chiude una pagina. Speriamo che non ne apra un'altra in un momento così delicato. Abbiamo visto cosa è successo a piazza Navona qualche settimana fa. Non voglio riaprire la discussione sui suggerimenti dati (da Cossiga, ndr) sugli infiltrati nelle manifestazioni. È un momento molto delicato: una democrazia che sospende le garanzie e vede usare la violenza da parte delle istituzioni è una democrazia che ha bisogno di essere accompagnata, che richiede grande vigilanza. Segnalo un altro episodio, la rimozione del prefetto di Roma Mosca che aveva fatto il suo mestiere, ha fatto quello che deve fare un funzionario dello Stato rispetto alla politica».

Veniamo alla sentenza della Cassazione su Eluana.
«Credo che la Cassazione e la Corte Costituzionale, che ha respinto un conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento in modo improprio, non potessero pronunciarsi diversamente. Sul merito c'è molto da riflettere, la politica deve assolutamente colmare questa clamorosa e colpevole assenza nel nostro ordinamento. Sono scandalizzata nei confronti di chi parla di condanna a morte o di eutanasia di stato, si erige a difensore del valore della vita e nella scorsa legislatura si è opposto in modo strumentale all'adozione di una norma che facesse chiarezza, che desse ai medici, ai giudici e ai familiari dei punti di riferimento certi. Nel merito resta un interrogativo: l'alimentazione di una persona, la cura quotidiana di un corpo, pur in uno stato di non possibile miglioramento delle condizioni cliniche, è accanimento terapeutico? Per me no. Sono consapevole della complessità della materia, per questo auspico un clima di dialogo vero che non c'è stato mai su questi temi, dopo gli anni 70. Basta pensare alla legge 40, e alle barricate contro il nostro disegno di legge sulle convivenze. Auspico che il Parlamento non legiferi più su questi temi a colpi di maggioranza, che ogni sensibilità etica venga ascoltata, ma temo che si verifichi una seconda edizione della legge 40, quando la maggioranza fu totalmente sorda alle ragioni dell'opposizione. Questa vicenda rinvia anche a un secondo tema. Credo che la disperazione del padre di Eluana, che riguarda anche tanti altri familiari di persone in quelle condizioni, sia in larga parte dovuta alla solitudine in cui si trovano. C'è una eutanasia sociale di cui siamo tutti responsabili. L'assenza di assistenza e di cure contro il dolore è clamorosa e lascia sole migliaia di famiglie ».

Un lettore le chiede:cosa c'è di naturale nella non vita di Eluana, che sopravvive solo grazie alle macchine? Perché nessun prelato parla di questo?
«Non è esatto, perché Eluana respira naturalmente. Ci sono tantissimi casi di questo tipo. Mio padre è in unacondizione in cui se smettiamo di nutrirlo e di assisterlo muore, non riusciamo più a comunicare, a capire cosa pensa. Ogni giorno mi chiedo cosa lui vorrebbe, ma non me la sentirei mai di interrompere le cure. Credo che non possa esserci una legge che autorizza una famiglia a privarsi di una vita. Che mi autorizzi a sopprimere mio padre, magari perché mi sono stancata di assisterlo. È la società che deve aiutarmi a non stancarmi».

La soluzione puòessere il testamento biologico?
«Ma il testamento può contenere disposizioni che rischiano di essere interpretate come eutanasia? Questo è un punto discriminante, perché rischia di portarci a discutere non di testamento biologico ma della possibile introduzione dell'eutanasia nel nostro ordinamento. Nel mio partito molti la pensano così: la proposta di legge di Ignazio Marino, ad esempio, è diversa da quello del prof. Veronesi. Fino a che punto la volontà di una persona può essere rispettata se chiama altri ad atti che possono essere considerati eutanasia? Questo sarà un tema cruciale, maè ora che si inizi davvero a discuterne».

Torniamo al ruolo della Chiesa...
«Una chiesa che parla sempre di diritto naturale oggi si trova paradossalmente a difendere tutte le possibili forme artificiali di sopravvivenza. L'accanimento terapeutico cambia nel tempo, in base ai progressi della scienza. Ci dobbiamo fermare nella ricerca di nuove possibilità per la vita? Certamente no. Ma questo apre altri interrogativi: se un paziente decide ora con il testamento biologico, è in grado di esprimersi in modochiaro ed esplicito rispetto alle condizioni in cui si troverà magari tra 10 anni? Per questo ritengo che una parte di decisione, comunque, toccherà ai medici e ai familiari».

Pensa che il Pd possa uscire triturato da una discussione su questi temi?
«Serve rispetto e ascolto per le opinioni differenti. Noi dovremo essere dei campioni di democrazia, una palestra, visto che il Pd ospita tutte le sensibilità etiche. Se il partito si dilania vuol dire che il suo progetto di partito plurale, non identitario e laico è irrealizzabile. Questa deve essere una occasione di crescita per il Pd, di affinamento della sua natura e del suo dna».

Intanto la destra potrebbe fare una legge a colpi dimaggioranza: loro magari discutono meno e poi agiscono... Non sarebbe meglio, per i progressisti, restare senza una legge come suggerisce l'onorevole Coscioni?
«So come è fatta questa destra e non ho grandi speranze. Ricordo che ai tempi dei Dico loro dicevano "non c'è bisogno di una legge, bastano le sentenze della magistratura...". Oggi dicono l'esatto opposto, "i magistrati non dovrebbero decidere". Per questo penso che una legge ci sarà e noi dovremo collaborare, e far capire bene al Paese le nostre posizioni. Se non saremo ascoltati, gli italiani avranno un'ulteriore prova di che tipo di democrazia stiamo diventando ».

A proposito dei Dico. Quel ddl non fu mai inserito tra le priorità nella scorsa legislatura perché creava imbarazzo politico. Ecosì c'è il rischioche magari ora si approvi la proposta sulle coppie di fatto di Brunetta e Rotondi, un testo decisamente meno avanzato. Non crede che questo possa creare ulteriore disillusione tra gli elettori del Pd?
«Noi prendemmo un'iniziativa come governo, quello di Brunetta non è un atto del governo. I due ostacoli principali furono i teodem e il presidente della Commissione Cesare Salvi, che con il suo radicalismo strumentale distrusse l'impianto dei Dico per poi preparare un altro ddl che non ebbe seguito. Dunque, accanto alla strumentalizzazione del centrodestra, ce ne furono anche dalla nostra parte: gli avversari del nascente Pd videro nella collaborazione Bindi-Pollastrini un simbolo del progetto che volevano contrastare. Vinsero l'integralismo cattolico e quello laico».

E tuttavia ai vertici del centrosinistra, nel governo e nei partiti, non ci fu una spinta decisiva a favore dei Dico. O No?
«Con quella situazione in Senato era impossibile: non potevamo contare sui voti dell'Udeur, dei teodem, dei senatori a vita. Poi c'era Salvi che "dialogava" con Biondi e alcuni di An per fare un'altra cosa... Il governo poteva anche decidere di andare a sbattere consapevolmente, ma con la situazione che c'era nel Paese avevamo già fatto molto. Io credo che quella vicenda vada ricordata positivamente ».

In quel caso lei fu attaccata dalla Chiesa. Non la colpisce che, quando si parla di temi etici, le gerarchie siano sistematicamente d'accordo col centrodestra? Che significato ha per i cattolici del Pd?
«Sui principi la chiesa non può che dire quello che dice. Magari qualche volta ci aspetteremmo un volto più misericordioso, come nel caso dei funerali di Welby, ma sulle questioni fondamentali la dottrina è quella.Diverso è l'uso della dottrina nelle vicende politiche, e qui ci sono responsabilità anche nostre. Io risposi "non conosco il latino" a un editoriale di Avvenire. Sono cattolica praticante, ma facevo il ministro di un paese pluralista e mi assunsi le mie responsabilità. Altri cattolici magari tacciono e si adeguano nelle sacrestie, altri ancora fanno una bandiera politica delle posizioni della chiesa. Non è vero che la chiesa è sempre d'accordo con la destra, e cito temi come l'immigrazione e la pace. Ma c'è una strumentalizzazione politica da parte della destra dei valoridella Chiesa: l'abbiamo vista negli Usa e anche in Italia. Alcuni di loro sono sinceri, ma la stragrande maggioranza del Pdl è laica: molti di An e Fi auspicavano l'approvazione dei Dico, magari privatamente. Però ufficialmente facevano i tutori dei valori cattolici, come ilTremonti che parla di Dio, Patria e Famiglia senza nessun pudore».

E i cattolici del centrosinistra?
«Sono molto critica nei confronti dei cattolici del centrosinistra, a partire da me stessa. Non siamo stati capaci di dimostrare che alcuni valori fondamentali del mondo cattolico sono più coerentemente rispettati dal Pd rispetto a questa destra. Il Vangelo è pieno di richiami alla coerenza, le parole più dure il Signore le rivolge ai Farisei, a chi rispetta formalmente le leggi e non assiste il Samaritano, a chi giudica la prostituta ma è più peccatore di lei, a chi invoca il Signore e poi non fa la volontà del Padre. La famiglia e la difesa della vita sono concetti molto ampi: questa maggioranza havinto anche sul valore della famiglia e ora la sta calpestando perché toglie risorse all'assistenza. La famiglia da chi è attentata? Dai Dico o dalla impossibilità di fare figli, di avere una casa, o di assistere un malato terminale in casa?».

Su alcune questioni, come i temi etici, la discussione è aperta. Su altre, come il meccanismo che permette di destinare alla Chiesa buona parte dei soldi che i cittadini non le destinano direttamente con l'8 per mille, il Pd è in grado di scegliere?
«Io credo che la Chiesa svolga per il bene comune compiti di grandissima importanza. Ma dovremmo essere altrettanto severi nel chiedere che i mezzi di comunicazione che sono stati finanziati con soldi pubblici per garantire il pluralismo (e indica il quotidiano Avvenire, ndr) abbiano un atteggiamento più attento e dialogante con il Paese. Credo che si debba pretendere che quella testata sia rispettosa del pluralismo del Paese».

Mentre siamo qui ci sono migliaia di studenti in strada a Roma. Si è creato un vasto movimento di giovani, professori egenitori. E si ha l'impressione che anche qui il Pd sia rimasto lontano... Nel 2002 nacque il movimentodeiGirotondi, estraneo ai partiti dell'Ulivo, e anche stavolta si rischia una distanza tra partiti e movimenti. Cosa può fare il partito Democratico per evitare questa sfasatura?
«Che ci sia qualcosa di bello che nasca fuori dal circuito stretto della politica io lo saluto ben volentieri, a prescindere dal suo orientamento politico che nessuno conosce nel suo insieme. Per me è un modo con cui la società reagisce a quella che sembra la mutazione genetica della nostra democrazia. Io ero preoccupata dai primi mesi di avvio di questo governo perché non vedevo manifestarsi nemmeno la capacità di reazione, che c'era stata nel movimento sindacale o nei Girotondi. Questo movimento dell'Onda è meno politicizzato, ma molto serio e forte. E dimostra che le antenne ci sono, che quando viene toccato un bene così grande come la scuola, dalla società c'è una risposta. Che io benedico e saluto col cuore aperto. Avrei voluto andare a osservare la manifestazione di oggi di persona, ma ho pensato che è più utile evitare di dare l'impressione di volerci mettere il cappello. Noi dobbiamo ascoltare. Essere degli interlocutori. E continuare a fare la battaglia che stiamo facendo».

Che evoluzione politica avrà questo movimento?
«Non lo so.Mi auguro "non qualunquista". Per adesso non lo è affatto».

La questione della vigilanza Rai. La maggioranza ha eletto un sentore del Pd, Riccardo Villari, alla presidenza.
«Siamo di fronte a un vulnus molto grave che la dice lunga sul concetto di democrazia di questa maggioranza e di questo governo. Dobbiamo reagire in maniera molto forte: nessuno può pensare che il Pd e l'opposizione siano complici di questa manovra. Per questo, se Villari non si dimetterà dalla presidenza, sarebbero necessarie le dimissioni di tutti i commissari dell'opposizione dalla vigilanza».

Il caso Villari rischia di diventare un nuovo caso DeGregorio? Ci sonostati errori da parte del Pd,come dice Follini?
«La carica di presidente della Vigilanza è particolarmente ambita, considerata da molti come la quarta carica dello Stato. È evidente che per noi è stata una sconfitta: è inutile che ci giriamo intorno. Abbiamo fatto sempre il solito errore. Ci si guarda sempre le spalle a sinistra invece che guardarsele al centro. Come è successo con il governo Prodi: la sinistra radicale l'ha sicuramente indebolito,ma a casa ci hanno mandato sei autorevoli esponenti di quel centro moderato che sono sempre lì che non sanno dove stare. Quanto a Villari, basta vedere la sua biografia: è un personaggio che rappresenta la vecchia e inestirpabile malattia della democrazia italiana, che è il trasformismo».

Come se ne esce?
«La Vigilanza spetta all'opposizione. L'abbiamo ricordato fino alla noia d'aver votato Storace, che allora non aveva rimesso la divisa,ma, insomma, era sempre Storace. Il gruppo di Di Pietro non ha alcun incarico istituzionale: non c'è un vicepresidente o unpresidentedi Commissione che sia dell'Idv. La loro scelta sulla Vigilanza era caduta su Leoluca Orlando, un uomo che ha una lunga carriera nelle istituzioni. Perché non poteva fare il presidente? Perché ha fatto un'intervista sui rischi argentini della democrazia italiana? Ma la abbiamo fatta tutti un'intervista sui rischi argentini della democrazia italiana! Abbiamo un segretario di partito che ha paragonato il premier a Putin! Si dirà: poteva l'Idv puntare su un altro nome? Può darsi. Qualcuno dice che adesso Di Pietro è più contento perché può continuare a fare un'opposizione ancora più radicale? Il mondo è pieno di persone che vogliono farsi del male, ma non è questo il punto. Il punto è che noi abbiamo a che fare con questa maggioranza. E non ci si deve illudere che sia diversa. Ripeto, se Villari non si dimette devono farlo tutti i commissari dell'opposizione. Se invece dietro questa vicenda c'è qualcuno che dice "adesso trattiamo per la Rai in maniera diversa", allora io dico che non condivido e prendo subito le distanze. Perché io sono tra quelli che si sono riconosciuti pienamente nel discorso di Walter Veltroni al Circo Massimo. In quelle parole c'era una opposizione fatta di proposte ma ferma. Il nostro popolo vuole questo, non i pasticci ».

Non sarebbe opportuno che il Pd espellesse Villari, in caso di mancate dimissioni?
«Se gli vogliamo fare questo regalo facciamolo. A Villari di stare nel Pd non interessa. Noi dobbiamo trovare un modo perché Villari si dimetta da presidente della Vigilanza. Perché non possiamo dire a parole che questa cosa non ci piace e poi avere comportamenti collaborazionisti dopo il vulnus che è stato portato alla vita di questo Paese».

La maggior parte delle mail arrivate al nostro sito internet in previsione di questo forum chiedono delle primarie...
«Questo nostro partito è nato con le primarie, come un partito nuovo, e noi dovremo fare in modo che continui ad essere così. Altrimenti rischiamo di dare l'idea che a grandi ventate di partecipazione segua, appena si volta l'angolo, l'arrivo dei normalizzatori... Non possiamo permettercelo. Non voglio fare un feticcio delle primarie. So che spesso servono a scaricare sui poveri elettori e cittadini le cose che non riusciamo a risolvere nel partito o a regolare i conti all'interno. Però alla fine le preferisco a tre che si mettono intorno a un tavolo e fanno il gioco dei barattolini. Perché rappresentano la partecipazione politica».

Sempre dalla rete, Costanza Hermanin da Berlino afferma che lei, assieme a Maurizio Lupi, è stata incaricata di formare un osservatorio sul razzismo che però sarebbe un doppione dell'Unat, ufficio nazionale antidiscriminazione razziale, di cui è direttore Isabella Rauti, figlia di Pino e moglie di Gianni Alemanno.
«Sono cose diverse. L'Unat è uno strumento della Comunità Europea che deve essere organizzato dai governi, l'altro è un organo parlamentare. Tra l'altro Isabella Rauti è una persona competente e con diverse idee giuste. Per quello che mi riguarda penso sia un bel segnale che in un momento come questo nel quale il tema del razzismo, delle discriminazioni e delle separazioni è molto forte,un ramo del Parlamento senta la necessità di organizzare due suoi settori (che sono quelli della " informazione" e degli "studi e documentazione"), orientandoli anche al tema del razzismo e delle discriminazioni. Anche perché quando si vota una mozione per le classi separate, come ha fatto la destra, il messaggio che si lancia è ben diverso da quello che si dovrebbe dare. Questo accade perché c'è una eccessiva politicizzazione di temi come questo.Una politicizzazione che trasforma noi parlamentari in membri di parte più che in rappresentanti di una istituzione di tutto il popolo italiano. È questo il punto, che a volte mi trovo a sottolineare ad alcuni colleghi del centrodestra quando sono chiamata a presiedere l'aula della Camera: credo che si debba mettere i parlamentari in grado di scegliere oltre l'impostazione politica».

Il tema dell'immigrazione è uno dei punti di attrito tra maggioranza e opposizione...
«Siccome l'immigrazione non riusciremo a bloccarla, dobbiamo farci i conti. Questa è la sfida vera.O prendiamo la strada della paura, dell'odio, della discriminazione o prendiamo quella dell'integrazione. Facendo attenzione che mentre le prime strade possono andare da sé, sull'integrazione una battaglia va fatta. Su battaglie come questa si fanno degli investimenti sociali, ci si perde la faccia se c'è necessità. Ringraziamo allora il presidente della Repubblica, ma anche Famiglia Cristiana o la posizione ufficiale della Chiesa su questi temi, perché su questo c'è un impegno che va oltre le parti politiche. E che serve affinché il Paese prenda la strada giusta. Se questa battaglia non si combattesse saremo sempre destinati a rimanere vittime di una delle connotazioni culturali della destra, quelle della chiusura dei territori e delle paure».

Un'idea di divisione il governo la sperimenta anche con i sindacati...
«C'è una trasformazione del dna della nostra democrazia.Non faccio feticci dell'unità sindacale, ma c'è un governo che sta lavorando per dividere il sindacato. Non possiamo non affrontare le conseguenze che questo avrà per i lavoratori, in un momentocosì difficile di crisi economica. Ma se Berlusconi decide di incontrare separatamente i sindacati, il Pd deve scegliere di fare un incontro con tutti loro. E aprire una fase interlocutoria sulla crisi del Paese. Perché i sindacati sono tutti interlocutori importanti della politica».

FS: BINDI (PD), SU CHIUSI-ROMA PRONTI A INCONTRARE MORETTI

FS: BINDI (PD), SU CHIUSI-ROMA PRONTI A INCONTRARE MORETTI
da Agi


"Sulla vicenda dei collegamenti ferroviari tra Chiusi e Roma siamo pronti a un incontro con l'ad di Trenitalia Moretti". E' quanto ha dichiarato la vicepresidente della Camera dei deputati ed esponente del Partito Democratico, Rosy Bindi, intervistata dall'emittente del centro Italia "Teleidea".

"Il passaggio degli intercity sulla linea lenta - ha spiegato - sarebbe un ritorno al passato, peraltro con alcuni peggioramenti. La maggioranza degli italiani non risiede nelle grandi città, risiede nei piccoli e medi centri, e viene penalizzata perché spesso il loro lavoro richiede la condizione di pendolari. Non è possibile che venga a mancare un servizio essenziale e fondamentale come quello dei trasporti, in maniera particolare come quello del treno. Facciamo appello al Governo naturalmente, ma anche alla Regione e a Trenitalia, che deve ricordarsi che per quanto azienda privata è pur sempre un'azienda che svolge un servizio pubblico".

"Siamo pronti a un incontro con Moretti - ha aggiunto - così come siamo altrettanto pronti a partecipare a qualsiasi forma di mobilitazione e di manifestazione, che credo sia giusta e sacrosanta, ma credo che soprattutto un parlamentare debba impegnarsi, ancorché dall'opposizione, per trovare una soluzione e per corresponsabilizzare tutti i livelli istituzionali".

sabato 15 novembre 2008

CONTRIBUTO ALLA CONFERENZA PROGRAMMATICA DEL PD:" LO SVILUPPO OLISTICO"

La crisi economica che attraversa il nostro globo non risparmia nessuno, tanto meno la nostra regione. I dati fornitici dall’ultimo rapporto dell’AUR (Agenzia Umbria Ricerche), ben evidenziano le debolezze della nostra Umbria rispetto alle altre regioni limitrofe, la mancanza di spirito imprenditoriale dei nostri cittadini, le scelte politiche economiche e di sviluppo applicate dal dopo guerra ad oggi, non ci consentono oggi,di metterci al riparo dallo tzunami della crisi globale. Una politica, troppo accentratrice e di controllo del territorio, non ha permesso l’apertura allo sviluppo, a quello sviluppo inteso come espansione delle libertà sostanziali dove le persone conquistano nel tempo autonomia e indipendenza.

Le amministrazioni pubbliche, a tutti i livelli, negli ultimi 20 anni, si sono sostituite all’iniziativa imprenditoriale, pilotando uno sviluppo economico virtuale, basato sui grandi lavori pubblici, sull’ affidamento a terzi dei servizi pubblici, sull’incentivazione dell’edilizia ad uso civile; inoltre, hanno svolto un ruolo di ammortizzatore sociale, ingigantendo fuor di misura le proprie dotazioni organiche. Siamo tra le regioni con il livello più alto di dipendenti degli Enti Locali.

La nostra città ne è l’esempio tangibile. Terminati i finanziamenti della Legge Speciale per la rupe, abbiamo assistito e tutt’ora assistiamo ad un lento e profondo indebolimento della nostra economia; i servizi pubblici dell’area welfare sono affidati a soggetti terzi, i grandi eventi programmati nel corso dell’anno creano il basilare indotto al commercio, il settore agricolo dipende e vive in gran parte grazie ai fondi comunitari del PSR, le politiche edilizie hanno per obiettivo la crescita delle entrate nelle casse comunali ed il mantenimento occupazionale del settore . Quindi possiamo ben dire che la gran parte della nostra economia scaturisce dalla finanza pubblica e non da una programmazione di un modello di sviluppo scelto dal pubblico.

Il sopra citato rapporto dell’ AUR 2007 cita testualmente: “Altri processi indicano un livello di imprenditorialità, di propensione all’impresa, ben più basso in Umbria, di altre regioni (Ferrucci) particolarmente nelle società di capitali e cooperative che segnano sempre una direzione di impresa più complessa di altre…….Più in generale può essere portata in primo piano una temperie culturale della società regionale e delle sue più forti potenze organizzate, istituzionali, di ricerca e di finanza, che non riesce a fare, pienamente, di questo nodo del “manifatturiero”, la sfida centrale, cosicché, nel parlare delle contraddizioni del “modello umbro”, si è finito, a nostro avviso, in non poche occasioni, per attribuire la sua contraddittorietà alla diffusività dell’intervento pubblico, piuttosto che a qualcosa di più profondo che invece faceva e fa riferimento, oggi ancor di più, ai protagonismi più molecolari delle soggettività più profonde della società umbra”.
Ed ancora Bruno Bracalente, nella sua relazione al forum del PD “Sviluppo e Libertà”: “La mia lettura è che quei punti critici compongono un quadro strutturale nel quale, da un lato, spicca la dimensione ridotta dei motori autonomi della crescita regionale…………….E dall’altro lato, specularmente, emerge chiaramente l’eccessiva dipendenza del sistema umbro da settori e attività economiche che rispondono ad una domanda tutta interna alla regione, protetti in vario modo dalla regolazione amministrativa (dalle costruzioni, alla grande distribuzione commerciale, ai servizi a rete), non esposti alla concorrenza, in parte dipendenti dai flussi di trasferimenti pubblici .”

Capire oggi, con questo tipo di scenario economico globale quale sia il rimedio giusto, il giusto modello di sviluppo, non è semplice.
Si parla del “quarto capitalismo” e della sua evoluzione nel “quinto capitalismo”, dove gli attori principali sono le piccole e medie aziende del settore del manifatturiero, che danno luogo alla rete tra imprenditori, al terziario, all’indotto, all’internalizzazione, purtroppo realtà che sul nostro territorio sono quasi inesistenti, sono coloro che hanno tenuto in vita il tessuto economico italiano nell’ultimo decennio, è il caso del Triveneto; ma anche delle grandi industrie (quinto capitalismo) che intendono sfidare i mercati e la concorrenza globale con la macro rete, composta di grandi, medie e piccole imprese.

Alcuni illustri economisti sostengono che i parametri di lettura della nostra crescita economica, quali il PIL, non sono più adeguati al contesto economico e sociale del ventunesimo secolo. Propongono formule, che tengano in considerazione la qualità della vita di ogni singolo individuo dove lo sviluppo non scaturisce soltanto dal prodotto interno lordo che è prodotto dal saldo del Conto della Produzione, ( anche un incidente stradale contribuisce alla crescita del PIL).

Tra le più interessanti teorie di sviluppo che avanzano quale “la decrescita”, intesa come concetto secondo il quale la crescita economica - concepita come accrescimento costante di uno solo degli indicatori economici possibili, il Prodotto Interno Lordo (PIL) - non è sostenibile per l’ecosistema terra. I sostenitori della Decrescita partono dall'idea che le riserve di materie prime sono limitate, particolarmente per quanto riguarda le fonti di energia, e ne deducono che questa limitatezza contraddice il principio della crescita illimitata del PIL. La ricchezza prodotta dai sistemi economici non consiste soltanto in beni e servizi: esistono altre forme di ricchezza sociale, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza, il carattere democratico delle istituzioni, e così via. La Decrescita vuole ricostruire un patto tra generazioni: bisogna imparare a pensare attraverso la prospettiva di più generazioni e non solo della nostra.
Due scenari sembrano infatti profilarsi all’orizzonte, quello di una decrescita reale, necessaria, subìta, fatta di razionamenti imposti ai più poveri e foriera di prevedibili involuzioni autoritarie, e quello, invece, di una decrescita condivisa, sostenibile e responsabile che al contrario può dischiudere grandi opportunità per la democrazia e l’autogoverno delle società.

Un altro attuale modello di sviluppo è basato sull’identità territoriale, accompagnato dal tema catalizzatore. La costruzione di un tema catalizzatore rientra nell’ambito della riflessione sul divenire del territorio. Ponendosi come obiettivo la realizzazione di un "territorio-progetto", la riflessione è in primo luogo un esercizio di concertazione democratica che prende in considerazione sia le componenti visibili e dominanti di un territorio, sia quelle nascoste. Si tratta di un percorso collettivo che unisce le attività di animazione, la riflessione su idee comuni, la riorganizzazione delle risorse umane ed economiche intorno ad un grande obiettivo condiviso dalle varie parti. Il rinnovamento dell’identità territoriale combinato al tema catalizzatore, può essere un mezzo per creare una forza di coinvolgimento locale, di concertazione istituzionale e di offerta commerciale. Il nome stesso del territorio può evocare questa forza, se opportunamente riconosciuto e valorizzato dai suoi abitanti.

Si evidenzia comunque che in tutte le nuove teorie e nuove pratiche di sviluppo, l’individuo è al centro, anzi è il centro focale, motore e contemporaneamente beneficiario, del sistema. Lo sviluppo non è più il “capitalismo”inteso quale regime economico e di produzione che nelle società avanzate viene a svilupparsi in periodi di crescita, riconducibile a pratiche di monopolio di speculazione e di potenza e l’individuo è considerato esclusivamente fabbricante di ricchezza, ma bensì potremmo definire il nuovo modello di sviluppo “olistico” considerandolo quale un'unità-totalità non esprimibile con l'insieme delle parti. Uno sviluppo che tenga conto di tutti gli insiemi, sociali, ambientali,economici, che da vita ad un’ unica unità che ha per obiettivo l’innalzamento della crescita individuale della qualità della vita.

Praticare sul nostro territorio “lo sviluppo olistico” richiede uno sforzo unanime di tutte le componenti che compongono la nostra società. Le istituzioni, le imprese, le associazioni, i partiti, i singoli individui devono confrontarsi sullo stesso tavolo e contribuire a costruire un modello di sviluppo condiviso, dove ognuna delle parti si senta coinvolta ed attrice della propria crescita ma anche di quella dell’intera collettività e se ne assume la responsabiltà del risultato finale.

Non è più il tempo delle scelte calate dall’alto, del controllo dei processi, il disegno, l’idea, il modello da perseguire deve essere frutto dei vari saperi, delle varie identità e non sorto da un gruppo d’intellettuali e politici detentori di ricette e rimedi plasmati all’occorrenza, spesso in uno stato di emergenza!
La conferenza programmatica del PD è il laboratorio, il tavolo, che non dovrà esaurirsi in poche ore, ma bensì dovrà proseguire nel tempo e sfociare nello sviluppo voluto dal nostro territorio.

Costituente Nazionale del PD
Silvia Fringuello

mercoledì 12 novembre 2008

Eeee… vai con le primarie ! (forse)

Ebbene sì, anche ad Orvieto avremo le primarie per il candidato sindaco (credo). Lunedì sera al coordinamento comunale di Orvieto, Loriana Stella si è candidata a sindaco della città e Stefano Mocio, sindaco uscente, non ha sciolto la riserva, ovvero non ha dichiarato di voler svolgere il secondo mandato. Che significa? Ma, le ipotesi sono due. Dando per scontato che Loriana Stella non ritorna sulla decisione presa, visto che l’esposizione della propria persona, della sua credibilità, è oramai allo scoperto, è ufficiale, se fosse altrimenti, in gergo politichese “sarebbe bruciata”, Stefano Mocio può: sciogliere la riserva successivamente, entro i termini previsti dal regolamento regionale delle primarie od optare per una ipotetica “liquidazione istituzionale” propostagli da qualche segretario del PD sovra-comunale, tutto ciò, per sventare possibili spaccature del partito orvietano, dal quale scaturirebbe un incerto risultato elettorale (vedi Todi).

Inoltre bisogna considerare anche le primarie di coalizione, che si potranno verificare soltanto se il candidato sindaco non sia “ben accetto” dalla stessa coalizione. Infatti le alleanze avverranno sulla piattaforma programmatica proposta dal PD e concertata con gli ipotetici alleati e non sulle persone candidate a sindaco. Solo successivamente, si discuterà della scelta del candidato, e se questo non fosse gradito allora si proseguirebbe con le primarie di coalizione. Certo, una forza politica minoritaria potrebbe comunque volere le primarie, a prescindere dal candidato sindaco, per potersi “misurare” all’interno della coalizione.

Le primarie potrebbero apparire un gioco sporco, atto solo alla “conta” dei vari poteri, detti in modo più elegante “varie anime”, ma per l’ esperienza vissuta da me direttamente, alle primarie del PD del 14 ottobre 2007 per l’assemblea costituente del partito nuovo, hanno dimostrato di essere lo strumento diametralmente opposto alla vecchio modo di fare politica, ovvero quello delle decisioni calate dall’alto, dall’apparato. Le motivazioni che mi hanno spinto a candidarmi a costituente nazionale sono state molteplici, certamente mosse dall’entusiasmo di partecipare alla costituzione del PD, evento storico dei nostri tempi, ma nella consapevolezza di portare un messaggio nuovo, di proporre un modo diverso di fare politica da quello fino allora conosciuto, di far partecipare i cittadini e le cittadine ai processi decisionali, dandogli l’opportunità diretta di scegliere i dirigenti di un partito ed i programmi.

Tutti coloro che hanno contribuito alla nascita del partito nuovo sapevano esattamente cosa stava succedendo, una rivoluzione del sistema partito italiano, un innovativo metodo di scelta della propria classe dirigente, che sfugge al controllo delle lobbies, dei poteri sommersi. Una testa un voto! Se ci fosse qualcuno che ancora non ha ben compreso le “nuove regole” è bene che faccia un “ripasso” sulle motivazioni che hanno spinto la nascita del PD. I vecchi partiti hanno fallito, sono rimasti imbottigliati dalla loro stessa classe dirigente, sono implosi; ce lo ricordiamo o no che non riuscivano più a fare sintesi, che ogni qualvolta si doveva affrontare una selezione della classe dirigente contemporaneamente nasceva un nuovo partito!

Auspico perciò, per il bene di tutta la collettività, per l’interesse generale dei cittadini, che le primarie siano “la sintesi”. Ci sarà un vincente ed un perdente, come in ogni competizione democratica, e poi, avvenuta la selezione, il partito unito, sosterrà il proprio candidato alle elezioni, forte del consenso popolare, raccolto in precedenza, non potrà altro che vincere !

La lezione democratica impartitaci dalle elezioni statunitensi deve esserci d’esempio:

- Primarie del partito democratico: Obama- Clinton
- Vincitore delle primarie del partito democratico: Obama
- Ricomposizione del partito democratico: Clinton for Obama
- Elezioni Presidente degli Stati Uniti : Obama- McCain
- Eletto Presidente degli Stati Uniti: Obama

Questa è democrazia! Competere sulla base dei programmi, ma anche sulle capacità di raccogliere consenso del singolo individuo, riconoscendogli democraticamente, anche all’interno dello stesso partito, il merito di essere il candidato giusto e dunque contribuire, in modo costruttivo, alla sua elezione alla carica istituzionale.

Trasferendo l’esperienza statunitense in Italia, ad Orvieto, potrei dire che, se una classe dirigente non è riuscita a far conciliare e concertare le varie espressioni e sensibilità del partito, siano esse state su basi programmatiche diverse o motivate da un riconoscimento meritocratico individuale, l’unica soluzione possibile, è quella di delegare la scelta al popolo. Come ? Con le primarie!


A presto. Silvia

venerdì 24 ottobre 2008

SCUOLA: INTERVENTO AL SENATO DI ALBERTINA SOLIANI

Legislatura 16º - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 075 del 22/10/2008


RESOCONTO STENOGRAFICO

Presidenza del presidente SCHIFANI
PRESIDENTE. La seduta è aperta (ore 16,02).
Si dia lettura del processo verbale.

STIFFONI, segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del giorno precedente.

PRESIDENTE. Non essendovi osservazioni, il processo verbale è approvato.

Comunicazioni della Presidenza
PRESIDENTE. L'elenco dei senatori in congedo e assenti per incarico ricevuto dal Senato, nonché ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicati nell'allegato B al Resoconto della seduta odierna.

Preannunzio di votazioni mediante procedimento elettronico
PRESIDENTE. Avverto che nel corso della seduta odierna potranno essere effettuate votazioni qualificate mediante il procedimento elettronico.
Pertanto decorre da questo momento il termine di venti minuti dal preavviso previsto dall'articolo 119, comma 1, del Regolamento (ore 16,04).


PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire la senatrice Soliani per illustrare la questione pregiudiziale QP7.
SOLIANI (PD). Signor Presidente, signora Ministro, colleghi, parlare di Cittadinanza e Costituzione, come fa l'articolo 1 di questo decreto, e metterne in discussione principi e valori negli articoli successivi, è il paradosso di questo provvedimento.
Come si fa a parlare dell'articolo 3 della Carta costituzionale, che proclama l'eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua - sottolineo, di lingua -, di religione, mentre si opera, con l'articolo 4 di questo decreto, una riduzione tale del tempo scolastico, degli insegnanti, delle compresenze, delle relazioni educative interne ed esterne alla scuola, da indebolire oggettivamente l'azione della Repubblica volta - è sempre l'articolo 3 - a rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza di cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana?
Perché la scuola è lo strumento formidabile per attuare questo articolo, per modificare le condizioni di partenza, per realizzare la mobilità sociale. Perché la scuola è la Repubblica. C'è un rapporto vitale tra la scuola e la Costituzione, che va ben oltre l'articolo 1 di questo decreto. La Costituzione si deve insegnare, si deve conoscere e si deve coerentemente praticare. L'articolo 4 del decreto, che introduce, vent'anni dopo, l'insegnante unico nella scuola primaria, in luogo della scuola a tempo pieno o con moduli articolati nel tempo e nell'insegnamento, istituita dalle leggi nn. 820 del 1971, 517 del 1977 e 148 del 1990, opera una drastica restrizione delle opportunità educative e di apprendimento dei ragazzi italiani.
Proprio perché taglia, smantella, riduce e restringe, questo intervento si configura come un attentato all'esercizio del diritto all'istruzione di cui debbono poter godere, secondo la Costituzione, i bambini di oggi nel nostro Paese. Questo è l'interrogativo sostanziale sulla costituzionalità di questo decreto. Parlo di quei bambini, di quei ragazzi a cui la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, inserita nel Trattato di Lisbona, all'articolo 24, si rivolge così: "In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente", anche - aggiungo io - di fronte all'organizzazione scolastica. Questa è l'Europa che noi oggi siamo.
Quale scuola elementare si prepara ai bambini di oggi e di domani con questo decreto? Più inclusiva o meno inclusiva di quella di oggi? Più ricca o più povera di stimoli? Certamente più povera. Più povera di rapporti interpersonali, di mezzi, di cultura, di educazione, di qualità. Ogni tempo sprecato nell'infanzia o nell'adolescenza è una perdita o un ritardo per il futuro. Questa è la nostra responsabilità.
Guardiamo questo provvedimento con lo sguardo verso il futuro dei bambini di tre o quattro anni che frequentano oggi la scuola dell'infanzia, o di quella di sei e sette anni che frequentano la scuola elementare e chiediamoci: dà loro maggiori opportunità la scuola che esce da questo decreto e dai provvedimenti che lo accompagnano? Noi abbiamo il dovere in quest'Aula di rappresentare gli interessi dei bambini, perché vale anche per loro l'articolo 2 della Costituzione, che parla della solidarietà sociale. Li riguarda. E il citato articolo 24 della Carta europea dice che i minori, quindi i bambini e ancor più gli adolescenti, «possono esprimere liberamente la propria opinione. Questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità».
L'insegnante unico, ministro Gelmini, modifica la struttura della scuola primaria, che è tra le migliori del mondo, quella che ha consentito di più di rimuovere gli ostacoli di cui parla la Costituzione. È questo che si aspettano i bambini italiani oggi? Sa il Ministro che la solitudine del maestro unico, da solo di fronte ai molti problemi e di fronte al mondo, è insostenibile? Verranno poi da sé, immediatamente - perché altrimenti non si regge nella classe - le classi differenziate per immigrati e ragazzi con difficoltà; verrà l'assistenza dei doposcuola per i più poveri, in luogo della scuola, una bella scuola per tutti! (Applausi dal Gruppo PD). Sa, il Ministro, che una scuola più povera mette in difficoltà le famiglie e, in particolare, le donne, e che questo non è compatibile con la tutela accordata alle famiglie, appunto, dagli articoli 29 della Carta costituzionale e 33 della Carta dei diritti dell'Unione europea? Lo sa, il Ministro, che, secondo il recente rapporto della Banca d'Italia sulle economie regionali, le cause dei risultati insufficienti delle scuole del Sud non sono rappresentate dagli insegnanti, ma dalla mancanza di infrastrutture edilizie e dalla bassa condizione sociale ed educativa delle famiglie?
Sa, il ministro Gelmini, che la legge n. 148 del 1990, che istituì l'attuale scuola elementare, fu l'esito di un dibattito lungo e approfondito nel Governo, nel Parlamento, nella scuola e nel Paese, come ricorda oggi il Ministro della pubblica istruzione di allora, Sergio Mattarella? Sa, il Ministro, che la scuola dei moduli venne dopo i nuovi programmi del 1985, che, sotto la spinta dei cambiamenti sociali e culturali, ritennero motivatamente insufficienti nel mondo di 20 anni fa il maestro unico e le 24 ore settimanali? Sa, il Ministro Gelmini, che nel biennio 1987-1988 vi fu una sperimentazione sul campo, prima che la suddetta legge fosse varata, su 6.000 classi, nel primo anno, e su 21.000, nel successivo, con esito positivo, come registrò la Conferenza nazionale sulla scuola del 1990? Non dico che così si governava, ma dico che così si deve governare. (Applausi dal Gruppo PD). Chi ha raccontato al ministro Gelmini che la ragione di quella riforma è stata l'occupazione dei docenti? Non si mette mano alla scuola senza una memoria, senza una visione, soltanto per pura economia! (Applausi dal Gruppo PD).
In questi giorni, ministro Gelmini, è in visita alle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia l'economista James Heckman, premio Nobel nel 2000 per l'economia, che, intervistato, ha detto che investire nell'infanzia porta un ritorno anche economico e che vi sono gli strumenti per dimostrarlo. Sull'investimento iniziale vi è un ritorno annuo valutabile nella misura del 10 per cento, superiore a certi investimenti sul mercato azionario dove il tasso di ritorno medio è dell'ordine del 6 per cento sul lungo termine. Nella situazione globale in cui ci troviamo, che non sarà così per tutta la vita dei nostri ragazzi, ciò di cui dobbiamo preoccuparci ora è pensare a investimenti, dice Heckman, in programmi per l'educazione dell'infanzia, in particolare degli immigrati, perché sarà quella che porterà il maggior ritorno economico. Questa è la visione, signora Ministro, alternativa a quella del Ministro dell'economia, il quale ha così sintetizzato la sua pedagogia sulla stampa: un maestro, un libro, un voto. Questa è la miseria del vostro programma: in realtà, a Tremonti la scuola non interessa; gli interessa far cassa per altri interessi e il ministro Gelmini, semplicemente, esegue.
Signor Presidente, infine, vi è un altro punto che vorrei evidenziare prima di avviarmi a concludere: l'articolo 5 del decreto determina quantità e contenuto dei libri di testo e mette vincoli precisi, stabilendo per quanto tempo debbano durare nella scuola quei libri di testo, ossia cinque anni. Per cinque anni, cioè, non si pensa a nient'altro rispetto a quanto è stato pensato quando si è stampato il libro di testo: e dov'è la libertà d'insegnamento sancita dall'articolo 33 della Costituzione? Possibile che il Governo non avesse altre strade per confrontarsi con gli editori e stabilire anche sgravi fiscali per le famiglie? Qui è accaduto che da un taglio di 8 miliardi di euro, semplicemente, si sia poi sviluppato un pensiero ideologico di grande portata (l'ha dichiarato il ministro Gelmini): cancellare 40 anni di storia italiana!
Non ricorda, signora Ministro, quante vittime può mietere un approccio di questa natura? Ecco perché, signor Presidente, questo decreto è lontano dalla nostra Costituzione. Ecco perché, in Italia, cresce la ribellione democratica, che non è - come ha dichiarato poco fa il ministro Sacconi, oggi presente in quest'Aula - frutto di una minoranza di presuntuosi o di una generazione di docenti cinica e ideologizzata.
Avete tentato di toccare la Carta costituzionale formale e il popolo qualche anno fa ha respinto il tentativo. Ma se si tocca la vita delle persone, delle nuove generazioni...

PRESIDENTE. Per favore, si avvii a concludere, senatrice Soliani.

SOLIANI (PD). Sto per terminare, Presidente.
Come dicevo, se si tocca la vita delle persone, delle nuove generazioni allora il popolo comincia a dire no, perché l'Italia non è disposta a vedere le nuove generazioni private della chance più importante per il loro futuro: l'istruzione. Perché questa, signor Presidente, sarà la generazione che per prima avrà meno istruzione delle precedenti e questo non è propriamente quello che prevede la Carta costituzionale.(Vivi applausi dai Gruppi PD, IdV e UDC-SVP-Aut. Congratulazioni).

IMPRESE FEMMINILI: AGEVOLAZIONI

UMBRIA: FONDO CREDITO AGEVOLATO PIU' FAVOREVOLE PER IMPRESE FEMMINILI

(ASCA) - Perugia, 23 ott - Il Fondo per operazioni di credito agevolato, rifinanziato dalla regione Umbria e gestito da Unicredit Banca di Roma, prevede un contributo in conto interessi, concesso ad abbattimento del tasso applicato al finanziamento bancario pari al 60% del tasso di riferimento, per gli investimenti in impianti ed attrezzature e per la formazione di scorte. Detto limite e' aumentato al 70% del tasso di riferimento, nel caso di nuove imprese femminili; al 35% del tasso di riferimento, per gli investimenti in immobili ed in beni usati. Indipendentemente dall'importo del finanziamento, quello ammissibile al contributo in c/interessi non potra' essere inferiore a 10 mila euro ne' superiore a 200mila Euro. Nuova anche la modalita' di presentazione: l'accesso alle domande di ammissione al contributo - spiega un a nota - viene automatizzato con l'attivazione del software ''Chebandi'', prodotto dalla software house umbra Pegaso 2000, completamente online, che presenta notevoli vantaggi per le Aziende che intendono accedere al contributo. Le Aziende sono guidate nell'inserimento delle informazioni richieste; la compilazione delle domande (che comunque devono successivamente essere inviate all'Ente gestore) e' telematico e potra' essere delegato anche ad associazioni di categoria e consulenti.

giovedì 2 ottobre 2008

CROLLA IL MERCATO SENZA LO STATO. (DOCUMENTO ESCLUSIVO)


CROLLA IL MERCATO SENZA LO STATO. (DOCUMENTO ESCLUSIVO)



Il Governo americano ha annunciato che stanno arrivando 700 miliardi di dollari e le Borse di tutto il mondo s’impennano come non mai negli ultimi anni, in barba al dogma del mercato che fino a ieri era assediato dalla inefficienza pachidermica dello Stato, nemico dello sviluppo e della libertà.

Con queste cazzate hanno condito milioni di consumatori e oggi i liberisti sono diventati antimercatisti e si mettono in fila ad aspettare i finanziamenti dello stato come ancòra di salvataggio e della propria lurida avidità. BALLE, questo è l’asset di questo sistema che si manifesta attraverso l’ignoranza alimentata dall’informazione, nessuna memoria, nessuna consapevolezza, conformismo e superficialità.

Non pensiate che tutto questo sia lontano da noi, e non crediate alle raccomandazioni di quegli esperti e di quei politici italiani che sostengono che il nostro Paese resterà estraneo al tracollo della finanza degli imbroglioni. Siamo tutti coinvolti, nessun salvacondotto è previsto e ce ne rendiamo conto solo quando uno come DAVID PARENZO si domanda per quale motivo ha avuto il coraggio di pubblicare i nomi delle banche italiane che hanno venduto obbligazioni Lehman Brothers, perchè? Vuoi vedere che i grandi giornali (Corriere, Repubblica, ecc…) hanno qualcosina da nascondere? Forse nei loro consigli di amministrazione siedono proprio quelle banche che hanno venduto prodotti Lehman? Intanto qui sotto ecco la lista proibita che forse non vedrete mai pubblicata.

CRACK LEHMAN BROTHERS IN ITALIA Esposizione banche e assicurazioni 1.457 mln €

1. Unipol: 370 mln € (120 polizze index con sottostante bond, 250 obbligazioni)
2. Mediolanum: 270 mln € (230 polizze index con sottostante bond, 40 obbligazioni)
3. Intesa San Paolo: 260 mln € (bond per un nominale 166 milioni di euro, crediti per cassa 51 milioni di euro, crediti di firma 3 milioni di euro, mark-to-market 40 milioni di euro)
4. Unicredito 160 mln € (bond nominale 120 mln €, mark-to-market 28 mln €, linee credito 12 mln)
5. Generali 110 mln € (polizze index con sottostante bond)
6. Banco Popolare 60 mln € (bond per un nominale)
7. MPS 50 mln € (bond per un nominale)
8. Bcc 40 mln € (polizze index con sottostante bond)
9. Fondiaria Sai 38 mln € (polizze index con sottostante bond)
10. Bper 24 mln €
11. UBI 20 mln € (bond per un nominale 13 mln €, derivati 7 mln €)
12. RAS 20 mln € (polizze index con sottostante bond)o) Credem 14 mln € (mark to market)
13. Alleanza 10 mln € (bond per un nominale)
14. Bpm: 9 mln € (bond per un nominale)
15. Banca Italease 2 mln € (leasing and factoring)

Fonte: il blog di Luigi Crespi

domenica 28 settembre 2008

DEMOCRATICI E CASO SCUOLA

Il riformismo bocciato

di Angelo Panebianco

Walter Veltroni, nell'eccellente discorso del Lingotto (27 giugno 2007) con cui ufficializzò la sua candidatura a leader del Partito democratico, e nei discorsi dei mesi successivi, mise a punto la carta di identità di una moderna sinistra riformista proponendola al neonato partito. Veltroni batteva allora con vigore su un tasto: il Partito democratico avrebbe sviluppato una reale capacità di intercettare le aspirazioni degli elettori e dei ceti sociali più dinamici e orientati alla modernizzazione del Paese, solo se avesse abbandonato, su un ampio arco di problemi, le posizioni conservatrici che avevano in passato caratterizzato la sinistra. La visione articolata da Veltroni appariva allora forte ed efficace ma restavano sospesi due interrogativi. Sarebbe egli riuscito a imporre un così radicale cambiamento di prospettiva a tanti militanti fino ad allora di diverso orientamento? Sarebbe riuscito, soprattutto, a ottenere un riposizionamento e un rinnovamento, culturale e di proposte, di quel sindacato (la Cgil in primo luogo) il cui appoggio è necessario a un partito di sinistra riformista? Non solo quel riposizionamento del sindacato non c'è stato ma è lo stesso Partito democratico a reagire oggi alle difficoltà suscitate dalla sconfitta ritornando sui propri passi, abbandonando la strada del rinnovamento, ridando spazio a quelle posizioni conservatrici che il Veltroni del Lingotto sembrava determinato a combattere.

Il miglior test per sondare lo «spessore riformista » di un partito italiano consiste nel valutare le posizioni che esso assume sulla scuola. La scuola pubblica è come l'Alitalia: rovinata da decenni di management interessato a garantirsi clientele e da un sindacalismo cui si è consentito di cogestirla con gli scadenti risultati (in tema di preparazione dei ragazzi) che i confronti internazionali ci assegnano. Solo che nel caso della scuola pubblica non ci sono cordate di imprenditori o compagnie straniere cui affidarla. Proprio nel caso della scuola il Partito democratico sta fallendo il test sullo spessore riformista. Perché ha scelto ancora una volta (come faceva il Pci/Pds/Ds) di accodarsi acriticamente alle posizioni della Cgil, di un sindacato che, in concorso con altri, porta pesanti responsabilità per lo stato disastrato in cui versa la scuola, un sindacato interessato solo alla difesa dello status quo (come è successo, del resto, nel caso di Alitalia fin quando ha potuto). Prendiamo la questione del ritorno al maestro unico deciso dal ministro Gelmini. Sembra diventato, per la sinistra, sindacale e non, il simbolo del «vento controriformista» che soffierebbe oggi sulla scuola. Al punto che, come è accaduto a Bologna, si arriva persino a far sfilare i bambini contro il ministro (nel solco di una tradizione italiana, antica e spiacevole, di uso dei bimbi per fini politici). Si fa finta di dimenticare che la riforma della scuola elementare del 1990, quella che abolì il maestro unico, fu un classico prodotto del consociativismo politico-sindacale che caratterizzava tanti aspetti della vita repubblicana. Nel caso della scuola funzionava allora un'alleanza di fatto fra Dc, Pci e sindacati. L'abolizione del maestro unico fu dettata esclusivamente da ragioni sindacali.

E' antipatico citarsi ma alla vigilia dell'approvazione della legge scrissi su questo giornale: «Nonostante le nobili e altisonanti parole con cui l'operazione viene giustificata la ratio è una soltanto: bloccare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento del personale scolastico come conseguenza del calo demografico e anzi porre le premesse per nuove, massicce, assunzioni di maestri. Non a caso sono proprio i sindacati i più entusiasti sostenitori della riforma (…) Questa classe politica ha sempre trattato così la scuola, incurante delle esigenze didattiche ma attentissima a quelle sindacali» (Corriere della Sera, 22 novembre 1989). Veltroni e il Partito democratico dovrebbero spiegarsi: è quella cosa lì che, ancora una volta, vogliono difendere? Per il futuro vedremo ma la verità è che, fino a questo momento, il ministro Gelmini ha fatto pochi errori. I provvedimenti fino ad ora adottati sono di buon senso e per lo più tesi ad arrestare il degrado della scuola. Ma, anziché riconoscerlo e dare il proprio contributo di idee e di proposte (come dovrebbe fare un vero partito riformista, ancorché all'opposizione), il Partito democratico preferisce ripercorrere l'antica strada: quella della «mobilitazione», della sponsorizzazione dei sindacati, anche quando questi difendono posizioni indifendibili.

Non è casuale che proprio sulla scuola la Cgil si appresti a fare lo «sciopero generale ». Difende un potere di cogestione che viene da lontano e che ha contribuito a danneggiare assai la scuola (dove la quasi totalità delle risorse se ne va in stipendi a insegnanti troppo numerosi, mal pagati e mal selezionati). Un potere di cogestione che fino ad oggi ha sempre potuto contare sulla complicità di governi e opposizioni. Non è plausibile che nel Partito democratico siano tutti felici di queste scelte (che danno un brutto colpo alla credibilità del Pd come partito riformista). E infatti non è così. Ricordo un intervento critico di Claudia Mancina ( Il Riformista) sulle attuali posizioni del Pd sulla scuola. O le parole per nulla critiche nei confronti della Gelmini pronunciate (a proposito della polemica sull' impreparazione di certi insegnanti meridionali) da uno che di scuola se ne intende: l'ex ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer. Sarebbe bene che anche molti altri, dentro il Partito democratico, venissero allo scoperto. Ha senso continuare a trattare la scuola pubblica come un «dominio riservato» del sindacalismo?

Da: Il Corriere della Sera del 28 settembre 2008

INAUGURAZIONE SEDE DEL COMITATO CITTADINO ANTIFASCISTA DI ORVIETO

COMITATO CITTADINO ANTIFASCISTA DI ORVIETO


INAUGURAZIONE CENTRO DI DOCUMENTAZIONE POPOLARE A ORVIETO


Un generale clima di allarme sociale dilaga per l´Italia, indistintamente da Nord a Sud. Numerosi negli ultimi mesi sono gli episodi a sfondo razzista, anche gravi, non ultimo l´uccisione di Abba, il ragazzo originario del Burkina Faso massacrato a Milano per aver rubato un pacco di biscotti in un bar.

L´ultimo di una lunga serie, che vede presi di mira migranti e rom indicati come la principale minaccia per la sicurezza dei cittadini.

I dati recentemente forniti dal Ministro Maroni durante l´ultimo Consiglio dei Ministri, nell´ambito del quale si è nuovamente discusso del pacchetto sicurezza, non fanno altro che incrementare il senso generale di insicurezza e paura diffondendo un´immagine artefatta e poco rispondente alla realtà.

I clandestini vengono individuati come nemici da tenere sotto controllo costruendo 10 nuovi Cpt, vengono fissate regole ancora più rigide per i richiedenti asilo, e un´ulteriore stretta viene data anche ai ricongiungimenti familiari.

A questo si aggiunge poi la pratica della "schedatura etnica" per i rom, di fronte alla quale voci di biasimo si sono levate anche dall´Europa.

Si preferisce la strada della criminalizzazione a discapito della promozione di politiche di integrazione sociale.

Di fronte a questo la società civile non può rimanere in silenzio.

Di fronte a proclami razzisti, volti a calpestare diritti umani fondamentali, di fronte ad affermazioni tese a riabilitare "un fascismo buono", l´unica arma da opporre è data dalla conoscenza: conoscenza storica di un passato recente e analisi dei fenomeni attuali.



Per questo, il Comitato Cittadino Antifascista di Orvieto



È lieto di invitarvi all´inaugurazione del



Centro di documentazione popolare

in via Magalotti 20 ( parallela via della Cava)

Domenica 28 settembre

a partire dalle ore 18.00



Luogo dedito alla raccolta e alla libera circolazione di materiale documentario in diversi formati ( cartaceo, audio e video) afferente alla storia locale ( e nazionale), all´attualità, a tematiche sociali di largo interesse e su cui grava, il più delle volte, una cattiva informazione.

Il Centro di documentazione, oltre ad essere accessibile a tutti è aperto ad ogni tipo di contributo.

Ma l´intento è soprattutto far si che, a circolare liberamente, siano le persone... senza distinzione alcuna di razza, sesso, religione, nazionalità e cultura, con il loro bagaglio di idee e di esperienze, da offrire e condividere con gli altri.

Perché la conoscenza è la sola arma in grado di abbattere ogni barriera!



PER INFO www.antifascistiorvietani.org

domenica 21 settembre 2008

L'ho trovata! "relazione di Trappolino" del 12/09/2008

Ho trovato sul blog "Trappolino's" la relazione presentata al coordinamento comunale di Orvieto del 12/09/2008. Una bel documento che condivido pienamente, mi auguro che riesca in fretta a concretizzare gli ambiziosi, ma indispensabili programmi in esso contenuti, nel migliore dei modi, con l'aiuto di tutto il partito.

Non aggiungo altro, vi aspetta una lunga ed attenta lettura.

A presto. Silvia

Relazione di C.E. Trappolino al coordinamento comunale di Orvieto del 12 settembre 2008

Riprendiamo il lavoro dopo la pausa estiva, tentando di riallacciare il filo del discorso a partire dal punto in cui c’eravamo lasciati: l’ultimo coordinamento di luglio e la “Festa democratica”. Una riflessione – prima di entrare nel merito delle questioni all’ordine del giorno di questa sera – sulla nostra festa, su quello che è stato un bellissimo appuntamento di popolo che, a dispetto degli scetticismi iniziali, ha saputo offrire eventi di grande qualità politica e culturale.

Al Parco Urbano del Paglia ho colto non solo la tenace solidità di una tradizione, quella delle “Feste dell’Unità”, ma anche la voglia di stare insieme e di mescolare storie, sensibilità e idee differenti (avremo modo di dedicare alla festa una riflessione più approfondita in una successiva occasione dedicata al bilancio della festa e alla futura programmazione). Se il Partito Democratico può legittimante porsi come protagonista “sociale” della vita orvietana lo si deve anche a questa capacità di costruire eventi di popolo. Eventi nei quali troviamo la nostra ragion d’essere di partito di massa in un vitale crogiolo di persone e di sentimenti, nel lavoro volontario e appassionato di donne e uomini, nell’energia “originale” dei giovani.

Ci attendono tempi di duro lavoro politico e organizzativo poiché stiamo dentro una sfida importante e che, per diversi aspetti, deciderà il nostro profilo di partito.

Tentiamo allora una prima riflessione sullo stato del nostro Paese, su quell’immagine dell’Italia contesa tra realismo e propaganda, speranze e paure.

E ci chiediamo se dobbiamo dar retta alla Commissione Europea, secondo cui l’Italia sarebbe già nel bel mezzo di una stagnazione oppure convenire con Silvio Berlusconi che dice di essere il presidente del Consiglio “di un Paese molto solido con un alto livello di vita e di benessere”?

Quale interpretazione dare ai dati, questi sì inclini al crudo realismo, che mostrano una crescita tendenziale del PIL del II trimestre che oscilla tra lo 0 e il -0,1%? E davvero il PIL dell’anno salirà, come prevede la Commissione, di un minuscolo 0,1%? Cosa dobbiamo aspettarci dai dati Istat di oggi sulla caduta delle produzione industriale di luglio e che segnano, sul piano tendenziale, una flessione del 3,2%?

C’è anche chi vede più scuro, e sono coloro che, scorgendo nel combinato disposto di inflazione in ascesa ed economie ferme, prevedono un periodo di stagflazione che riguarderebbe gran parte dell’Europa occidentale.

Siamo – ha detto Mario Draghi - da più di un anno nella più difficile crisi finanziaria dei nostri tempi”.

Non stiamo parlando di roba astratta, di teorie che alla fine poco c’entrano con la vita delle persone.

Da quando la globalizzazione - questa parola così familiare e così arcana – è entrata nella nostra quotidianità, c’è quasi la sensazione di abitare un mondo più piccolo, nel quale l’interdipendenza delle cose ci impedisce l’indifferenza, lasciandoci invece il sospetto che nulla, ormai, ci è veramente estraneo.

È di questi giorni la notizia della nazionalizzazione, da parte del governo statunitense, delle due maggiori società di mutui (Fannie Mae e Freddie Mac). Decisione motivata dal fatto che il certo fallimento di questi colossi avrebbe messo a repentaglio l’intero sistema finanziario statunitense. Com’ è evidente, anche nella patria del neoliberismo operazioni tipicamente stataliste e, potremmo dire, vetero-socialiste possono sempre tornare utili – soprattutto quando ad essere socializzate sono le perdite.

Negli Stati Uniti si nazionalizza alimentando quindi un debito pubblico che non solo è già abbondantemente fuori misura ma che è anche prevalentemente nelle mani dei cinesi. Una lunga deriva accompagna lo spostamento del centro del pianeta dall’Occidente verso Oriente, dove oltre due miliardi di persone stanno premendo per entrare nel mondo dei consumi. Un mercato così grande fa saltare tutti gli equilibri conosciuti, imponendo la propria sintassi non solo sulle relazioni geopolitiche, ma anche sul costo dei beni di prima necessità (e non a caso, qualcuno, divertendosi ad immaginare il ritorno ad un Italia autarchica, ha scoperto quanto siamo dipendenti da altri, intrinsecamente parte del campo relazionale articolato dagli scambi del commercio internazionale).

Rispetto a questo grande movimento di dislocazione di nuove forze e vecchie presenze, l’Italia di Berlusconi affronta questa perigliosa traversata nel peggiore dei modi possibili ma avendo bene in testa un progetto di Paese. Mentre il mondo politico del centrodestra si applica nell’ennesima celebrazione del ventennio fascista, il governo tira dritto in una scientifica opera di promozione dei soggetti e dei ceti sociali a lui più prossimi. Con la scelta di mantenere l’inflazione programmata all’1,7% nel 2008 e all’1,5% per il 2009 - obiettivi del tutto impossibili da raggiungere – si persegue un progetto classista di ridistribuzione regressiva dei redditi. Se l’esecutivo volesse mantenere inalterata quella previsione, i redditi dipendenti registrerebbero in due anni una perdita secca di 1000 euro. E non a caso, lo smantellamento dei provvedimenti anti-evasione fiscale costituisce, in sostanza, “una misura di auto-riduzione selettiva delle imposte concentrata su alcune categorie di contribuenti (che, visto l’andamento del gettito IVA di luglio, hanno prontamente cominciato a beneficiarne)”. Nemmeno troppo velatamente, si comincia a scoprire un disegno teso a colpire i redditi fissi di lavoratori dipendenti, partite iva finte, pensionati. I dati sulle vendite al dettaglio (a giugno si è registrato un -3,4% rispetto al 2007) preannunciano con sin troppa eloquenza quello che dovremmo aspettarci nei prossimi mesi.

Dentro la testa del Governo c’è davvero una precisa idea di Paese rispetto alla quale non sono estranee nemmeno le trovate mediatiche di Alemanno sul ventennio e di La Russa sulla Costituzione.

E bene ha fatto il Presidente Giorgio Napolitano a mettere in campo aperto la questione sulla piena identificazione nei principi e nei valori della costituzione, parlando della necessità di un forte moto di patriottismo costituzionale.

In prospettiva, la politica dei tagli promossa nel DPEF avrà effetti laceranti.

Quasi un terzo delle minori spese riguarda gli enti territoriali. Sono tagli rilevantissimi che, sommati al minor gettito derivante dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa (come noto, solo parzialmente rimborsato ai comuni) produrranno ineluttabili conseguenze, non solo e non tanto sugli sprechi e le inefficienze, ma anche sui servizi a garanzia di diritti sociali (dalle mense nelle scuole, agli asili nido, dai trasporti pubblici locali all’assistenza agli anziani non autosufficienti) e civili.

Anche per quel che concerne la sanità, il piano del governo prevede un contributo statale alla soppressione dei ticket del tutto insufficiente a coprire la totalità della previsione. Morale: o le regioni trovano le risorse necessarie oppure saranno introdotte forme di compartecipazione dei cittadini.

Ma c’è dell’altro: i tagli alla scuola (-130mila lavoratori tra docenti e personale non docente), la reintroduzione, di fatto, di norme ispirate ad una forte deregolazione del rapporto di lavoro (cancellazione della legge 188 e degli “indici di congruità” che assicuravano strumenti efficaci di lotta al lavoro nero e sommerso), le già ricordate “contromisure” che allentano il contrasto all’evasione ed elusione fiscale e al lavoro nero.

Quel che è peggio, mancano le risorse per lo sviluppo. Industria 2015 è stata svuotata e, viste le cifre nel DPEF, è difficile davvero comprendere in virtù di quale miracolo l’Italia potrà alla fine riattivare senza traumi un nuovo e virtuoso ciclo di crescita.

Questi i contorni di quell’idea di società del Governo Berlusconi non solo ingiusta e classista, ma anche incapace di dare risposte ad un ciclo economico che meriterebbe ben altre misure finalizzate alla crescita e alla ridistribuzione (ad esempio, tramite la riduzione delle imposte sui salari e pensioni, innalzando le detrazioni fiscali concesse alle famiglie, rivedendo i tagli alla spesa in conto capitale e reintroducendo un credito di imposta per gli investimenti delle imprese nel mezzogiorno).

Sul decisivo tema del federalismo, con l’approvazione della bozza “Calderoli” in Consiglio dei Ministri si stanno determinando le condizioni, davvero pericolose, per quella che Stefano Fassina hanno definito una specie di “eutanasia dello Stato centrale” in materia di promozione e garanzia dei diritti civili e sociali sanciti dalla Costituzione. Si ripropone una interpretazione estrema del principio di territorialità delle imposte vale a dire: le imposte appartengono soltanto al territorio nel quale si raccolgono. La comunità più larga di cui si è parte per storia, cultura, istituzioni ed economia non ha titoli.

La radicalizzazione del principio di territorialità – ha scritto Fassina - ha una inevitabile conseguenza: le risorse necessarie a completare il finanziamento delle prestazioni fondamentali (scuola, sanità, assistenza e in parte trasporti) nei territori svantaggiati sono nelle esclusiva disponibilità delle Regioni più ricche, non dello stato centrale così come previsto nella proposta della Conferenza delle Regioni. La perequazione è orizzontale: dalle regioni più ricche alle regioni più povere, senza l’intervento di Roma”.

Senza entrare più nel merito di una riforma destinata a mutare l’infrastruttura sociale, economica e civile del nostro Paese, mi piace citare uno scritto di Giorgio Ruffolo di qualche giorno fa. “Mai come oggi – scrive Ruffolo – l’Italia è apparsa così fragile. E la sua unità così in pericolo. Il pericolo non è un nuovo fascismo. È la decomposizione nazionale e sociale”. Poi aggiunge: “Compito della Sinistra avrebbe potuto essere quello di ricomporre l’unità nazionale in un grande progetto per lo sviluppo economico, l’equilibrio ambientale e il benessere sociale. E di fondare su questo il grande disegno federativo unitario…”.

Dopo la stagione delle feste e l’appuntamento nazionale di Firenze il Partito Democratico ha impresso una forte accelerazione all’iniziativa politica.

In un crescendo molto intenso, le feste hanno attratto la voglia di politica e ridato voce a quell’Italia democratica nient’affatto disposta ad accettare passivamente un berlusconismo della peggior specie.

Dinanzi a noi abbiamo la manifestazione del 25 ottobre a conclusione dell’iniziativa nazionale “Salva l’Italia”. In preparazione di ciò, sono in programma, a livello nazionale, tre appuntamenti che impegneranno il partito nei territori sin dalle prossime settimane. Li riassumo brevemente.

Il 26 e il 27 settembre verrà organizzata una campagna di volantinaggio capillare davanti alle scuole e le università sulle tematiche inerenti le scelte del Governo sulla scuola. Lunedì 29 seguirà, in ogni comune capoluogo, una iniziativa pubblica sui precedenti temi:

Il 3 e il 4 ottobre la campagna di volantinaggio si svolgerà questa volta davanti ai supermercati sulle questioni relative al carovita e alle non-scelte del Governo. Lunedì 6 ottobre si prevede di realizzare una iniziativa pubblica.

Il 10 e l’11 ottobre la campagna di volantinaggio si svolgerà dinanzi alle fabbriche e a tutti i luoghi di lavoro e avrà per oggetto i temi dei salari, dell’occupazione e dello sviluppo. Il 13 ottobre si prevede di realizzare una iniziativa pubblica.

Questa mobilitazione serve per dare un rinnovato slancio all’azione del Partito Democratico sui territori. A Orvieto noi faremo la nostra parte e sin dai prossimi giorni, assieme allo staff e all’organizzazione, metteremo in cantiere il nostro specifico contributo.

Venendo alle questioni del nostro territorio e della nostra città, questo coordinamento comunale prosegue un lavoro con l’obiettivo di consolidare la nostra capacità di governo e di progettazione politica.

Allora: cosa faremo, noi, democratici di Orvieto?

Intanto, dobbiamo continuare a costruire il Partito Democratico. Lo dico nella convinzione di non poter scantonare da questa responsabilità. La nascita del Partito Democratico non è stata una “singolarità” storica compiuta la quale, tutto ritorna quasi come prima, con le solite liturgie e cerimoniali, scambiando quell’atto fondativo per una trovata mediatica.

Le primarie del 14 ottobre segnano una discontinuità nelle vicende politiche nazionali e locali. Discontinuità che per noi è un fatto “costituente”. E se vogliamo essere un partito nuovo, un partito della modernizzazione non dobbiamo avere paura dell’innovazione, di nuove pratiche, di cambiare passo e stile.

Ci attendono appuntamenti importanti. E per affrontarli abbiamo bisogno di un partito radicato, di un partito vero. Iniziamo allora dal tesseramento.

Stiamo entrando in un clima pre-elettorale. Lo rivela una certa mobilitazione dell’opinione pubblica, una evidente propensione alla dichiarazione, all’intervento, alla politicizzazione di fenomeni altrimenti inosservati. È positivo che la città si interroghi, partecipi, domandi e chieda.

Orvieto è una città culturalmente vivace ed è bene che esibisca questo suo carattere nelle occasioni importanti. Il Partito Democratico non è estraneo a questa temperie, a questo nuovo clima. Credo che proprio la nascita del PD abbia in parte contribuito a liberare spazi in precedenza coartati. Non crediamo però di essere gli artefici di tutto questo. La società, anche quella orvietana, è cambiata; e sta cambiando anche il rapporto con la politica.

Ci troviamo dinanzi ad una cittadinanza sempre più competente, informata, consapevole, differenziata. Aumentano i flussi di comunicazione, le letture della realtà, nuovi bisogni anche politici e culturali. È questo il contesto all’interno del quale dobbiamo porci e dobbiamo esercitare la nostra capacità di governo e di governance.

All’aumento della differenziazione sociale (che è sintomo di modernità) corrisponde, sul piano dei poteri, una sempre più evidente “poliarchia”. Sto parlando delle forze sociali, delle organizzazioni di categoria, delle autonomie funzionali. Una crescente complessità difficilmente imbrigliabile dalle vecchie pratiche consensualistiche.

Come parla e cosa dice il Partito Democratico a questa poliarchia? Non è forse ora di intraprendere un confronto di tipo strategico in cui ciascuno si assuma la propria responsabilità al fine di realizzare un progetto condiviso?

Quanto c’è da aspettare perché finisca questo continuo gioco delle parti nel quale la somma delle dichiarazioni conduce sempre allo zero?

Qual è allora il nostro compito? Quello di dover tenere assieme la città tutta secondo una logica di comunità e di solidarietà, proponendo ai soggetti di una città ormai “multipolare” un nuovo metodo e un nuovo scenario dove far agire strumenti di governance. Lo possiamo fare noi perché questa propensione al “bene comune” è davvero un’altra radice costitutiva della nostra cultura e uno degli elementi centrali di quell’etica, storicamente determinata, delle nostre classi dirigenti.

C’è da imparare a leggere i nuovi fenomeni sociali e culturali - anche quelli che fanno rumore la notte – e restituire alla politica il tempo dei progetti, il tempo necessario ad affrontare un nuovo ciclo di immaginazione e di azione. I cinque anni dell’azione di governo possono rappresentare, tutt’al più una parte importante di un progetto più ampio. In ogni caso, non possono definire i confini del possibile e del fattibile.

Noi dobbiamo saper guardare lontano, saper immaginare il futuro senza le preoccupazioni delle scadenze elettorali. Diversi mesi fa ho parlato di “Orvieto 2020” come emblema di una politica capace di respiro. Non ho cambiato idea.

Tutto questo implica la forza di un partito coeso, capace di sintesi sulle analisi e sui progetti fondamentali, in grado di mobilitare le intelligenze e le relazioni. Implica classi dirigenti generosamente protese alla formazione di nuove classi dirigenti. Implica luoghi e strumenti capaci di far circolare le informazioni. Implica, infine, il rispetto per chi la pensa diversamente. “La società aperta è quella nella quale gli uomini hanno imparato ad assumere un atteggiamento in qualche misura critico nei confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull’autorità della propria intelligenza (dopo discussione)”.

Orvieto quindi deve essere una città dove vivere con entusiasmo, dove vengano premiati il merito e il talento e dove la nascita non segna per sempre il destino dei giovani. Una città dove ci si muove…

Un obiettivo, questo, ambizioso e che richiede un ritrovato entusiasmo e protagonismo dei cittadini e delle forze più dinamiche della città. Un obiettivo accompagnato dall’affermazione di chiari valori civici e politici, rispetto ai quali il Partito Democratico deve poter compiutamente rappresentare il momento più alto e più solido. A partire dal tema dell’uguaglianza e delle opportunità. Questi valori rappresentano il criterio di demarcazione tra noi e la destra e il criterio che misure l’efficacia del governo locale. Dobbiamo provare scandalo dinanzi ad una mobilità sociale sempre più ferma e sempre più foriera di crescenti iniquità.

I dati dell’IRPEF ci dicono che i redditi medi degli orvietani si trovano al terzo o quarto posto dell’Umbria. Dobbiamo rallegrarcene, ma questi dati, così come quelli dei depositi bancari, non ci dicono di come questi redditi si intersecano con la mobilità sociale, la creazione di opportunità. Compito della politica, anche nella nostra benestante città, è quello di produrre libertà e chance egualmente distribuite, a partire dalla piena valorizzazione dei talenti e di quell’inesauribile risorsa che è l’intelligenza di donne e uomini.

Il vero cambiamento politico non è quello dettato da una congiuntura sfavorevole o da un evento a noi particolarmente avverso. Non si ragiona bene con la pressione degli eventi. Noi vogliamo imprimere una svolta, un nuovo inizio proprio nel momento in cui c’è la certezza di aver lavorato bene e di aver recuperato forza e determinazione. La nostra affidabilità, competenza, capacità di progetto, la nostra stessa “vocazione maggioritaria” ci obbligano a parlare con voce nuova e con una nuova visione. Il nostro profilo ci induce all’innovazione, individuando anzitutto i soggetti e i valori con i quali vogliamo costruire questo possente movimento di idee e persone.

Fissiamo alcuni punti fermi che devono guidare l’azione politica del nostro partito nei prossimi mesi.

Anzitutto, sul tema delle alleanze il Partito Democratico di Orvieto intende contribuire all’innovazione dell’esperienza di governo di centrosinistra e ciò in ragione:

1) di una lunga tradizione politica e culturale che ha consentito alla città di Orvieto di godere di una stabilità e di conseguire una emancipazione reale dei ceti rurali e subalterni;

2) dell’esigenza di rappresentare efficacemente la complessità della società orvietana;

Tale scelta non ignora la crisi che attraversa e scuote importanti forze della sinistra, alle prese con le contraddizioni di una pratica politica non coerente con le attese di modernizzazione del Paese.

Anche nell’orvietano, quindi, il futuro del centro sinistra passa per una forte capacità di innovare le politiche, i valori, i metodi di governo e di democrazia. Oggi, una mera ripetizione di memorie d’archivio non è né auspicabile né in linea con le sfide che attendono la città.

Siamo consapevoli della complessità dei compiti che ci attendono ed è per questo che chiederemo alla classe dirigente di maggiore esperienza un atto di generosità al fine di promuovere un irrinunciabile avanzamento di nuove figure dirigenti. Il PD, partito nuovo, deve quindi dare il segno di una reale discontinuità pur valorizzando e impegnando tutte le nostre migliori competenze.

Il punto successivo si riferisce alla questione delle primarie. Contrariamente a quanti pensano che le primarie siano una clava da brandire per minacciare questo o quello, io scelgo un approccio meno emotivo. Il percorso sarà quello delineato dallo Statuto e dal Regolamento regionale.

Ritengo opportuno che in attesa dello Statuto e del Regolamento regionale, il Partito Democratico possa intraprendere una serie di azioni che qui elenco sinteticamente:

a) mettersi in ascolto della città, avviando un ampio confronto con gli amministratori pubblici locali, provinciali e regionali, organizzazioni di categoria e sindacali, associazioni di volontariato, culturali e sportive, fondazioni, rappresentanti dell’imprenditoria e del lavoro per definire un quadro sinottico dei processi e dei progetti in corso e per condividere, ove possibile, analisi e strumenti.

b) Predisporre gruppi di lavoro sui tre temi fondamentali dello Sviluppo Locale, del Welfare e della Scuola, Economia della Conoscenza e Formazione. Gruppi dei quali faranno parte i membri del coordinamento comunale e altri soggetti in rappresentanza delle forze sociali, economiche e culturali in grado di contribuire all’elaborazione del manifesto politico del PD per la città di Orvieto.

c) Predisporre iniziative nei circoli del PD al fine di mobilitare la nostra gente in vista dei prossimi appuntamenti politici e amministrativi;

d) Organizzare una serie di iniziative per definire il contesto generale (internazionale, nazionale e regionale) all’interno del quale predisporre la piattaforma politico-programmatica.

Tutto questo impegno troverà compimento nella conferenza politico-organizzativa, da effettuarsi entro la fine di ottobre.

Ritengo inoltre opportuno che questo percorso debba contemplare anche una riflessione collettiva sull’operato delle amministrazioni Comunale e Provinciale, atto doveroso che ritengo possa sancire la reale sostanza democratica della nostra politica.

Vorrei porre ora, alcuni temi che ritengo considerevoli di una nostra particolare attenzione poiché rappresentativi del nostro profilo e di quella che ritengo essere la nostra identità.

Vorrei partire dai giovani. “È tempo di abbattere gli ostacoli che vengono da una società chiusa, soffocata dai corporativismi, e che difende l’esistente e le rendite di posizione. Ridare voce ai giovani è essenziale perché sono loro a porre quella domanda di valorizzazione dei talenti e delle energie e di liberalizzazione della società che è ormai ineludibile”. Questo è quanto scrive il nostro Manifesto dei Valori.

I giovani tengono aperte le porte del futuro perché là dovranno realizzare se stessi, le loro passioni, i loro talenti. Orvieto deve scommettere sui giovani, sulla cultura, sui saperi, sulla creatività. Lo deve fare concretamente: dai servizi alle occasioni di lavoro, dalle biblioteche agli istituti formativi, dal tempo libero allo sport, dalla politica della casa ai servizi per la prima infanzia. Il Partito Democratico deve quindi assumersi, integralmente la responsabile promozione di una nuova classe dirigente che sappia parlare con una voce più vicina alla contemporaneità.

Altro tema decisivo è quello della democrazia. Noi abbiamo un “dovere” costitutivo nei riguardi del concetto di “democrazia”. Il Partito Democratico nasce alimentando le speranze di partecipazione e cambiamento degli italiani. Noi abbiamo allora il “dovere” di esigere una democrazia libera e forte. Una democrazia intesa come partecipazione, inclusione, solidarietà, autogoverno, ma anche come capacità di decisione, assunzione di responsabilità verso il bene comune.

La “democrazia” deve poter essere quotidianamente ampliata, diffusa, alimentata. Dal dialogo, dalla partecipazione, dalla libera discussione nasce quella passione civica necessaria per fare grande la nostra città; nasce il consenso e nuove idee e quel bene comune che è l’intelligenza collettiva, il sapere comune.

Una politica forte, autorevole non teme di ampliare i confini degli strumenti di democrazia, la libera circolazione delle informazioni, la condivisione della conoscenza.

Dalla riflessione sulla democrazia quale “ethos della politica” e dalla consapevole urgenza di predisporre strumenti di governo più adatti a cogliere la trama complessa della società orvietana, possono sorgere i primi segnali dell’innovazione che saremo chiamati a realizzare. Dinanzi ad una città e ad un territorio multipolare, in cui coesistono istanze autonome che determinano effetti reali e incisivi, è necessario un surplus di “intelligenza connettiva” che può trovare un luogo di rappresentazione attraverso l’azione politica.

Intelligenza connettiva per tenere assieme tutta la città e il territorio, per condividere progetti e responsabilità. La politica è quindi chiamata a svolgere un ruolo importante. Anzitutto lavorando affinché città e territorio si affermino sempre più come “bene comune”, occasione di crescita e sviluppo.

Ecco che il tema dei “diritti delle generazioni future” entra nel cono di luce della politica e della progettazione del vivere insieme. Un ingresso da cui è possibile trarre quei “principi di responsabilità”, di “precauzione” e di “cautela” che devono animare molte delle scelte ambientali di chi è impegnato nel difficile governo della città.

Una politica autorevole non agisce per cooptazione ma sulla base del principio di autorevolezza. E la politica del “noi” sarà tanto più autorevole quanto il “dire” e il “fare” potranno riallinearsi.

La politica è troppo spesso sotto la sferza della contingenza, vittima delle emergenze. Soffocata dalla dittatura dei “tempi brevi”: tempi delle scadenze elettorali, tempi delle carriere, tempi che annichiliscono la capacità di cambiare davvero. Tempi, infine, che ripetono il medesimo ritornello della conservazione e della persistenza delle rendite inoperose.

Dobbiamo restituire alla politica la “serenità” del tempo senza assillo, il dispiegarsi pieno del progetto. Per guadagnare ciò, è importante mettere accanto all’io quel “noi” che è capace di proiettarsi, con il senso della comunità, sui tempi lunghi. Quel “noi” si contrappone all’egoismo, alla solitaria fuga nel potere, al pensiero povero che è monologo e non dialogo.

La politica del “noi” deve saper indicare con quali soggetti intende costruire e realizzare una “città nuova”, l’innovazione delle pratiche sociali, culturali, economiche e politiche.

Quello che è in gioco, in questo passaggio storico, non è riconducibile ad una mera questione di tecnica amministrativa. Noi, oggi, dobbiamo saper aprire le porte di un futuro su cui nessuno può vantare diritti in esclusiva. La città sarà quella che “noi” vogliamo che sia. E in quel “noi” ci sono i cittadini, la politica, l’amministrazione, le imprese, le organizzazioni di categoria, le parti sociali, le autonomie funzionali, le associazioni, gli altri enti…

Chi sono, allora, i soggetti con cui noi vogliamo costruire la città del futuro?

Sono anzitutto i giovani, le donne, e tutti quei cittadini che non temono l’innovazione, il merito come criterio di selezione; persone che sentono urgente l’esigenza di porre la grande questione dell’uguaglianza nelle forme rinnovate delle opportunità e del sapere, imprenditori aperti al nuovo che accettano le sfide della globalizzazione, anziani che sentono di poter ancora offrire valori sociali e comunitari e che tuttavia si attendono di poter disporre di servizi all’altezza.

C’è una “città aperta” e “creativa” pronta per dare un senso a questa magnifica avventura che stiamo intraprendendo. La “città aperta” combatte l’immobilismo, le rendite e promuove l’uguaglianza con strumenti e servizi di crescita personale.

Ecco: abbiamo bisogno di una economia che cresce, produca ricchezza diffusa e che valorizzi il lavoro qualificato. L’economia è cambiata: oggi la natura della produzione esige la messa al lavoro dell’intera soggettività dell’individuo, di tutte le competenze sia esse formalizzate o acquisite tramite l’esercizio dei talenti.

Se il “capitale umano” è quindi centrale nel determinare la qualità dello sviluppo di un luogo, altrettanto lo è la capacità dello stesso luogo di attrarre – in virtù dell’apertura, della tolleranza, di un’offerta culturale variegata e aperta alla modernità, di un sistema commerciale flessibile - personalità creative, lavoratori della conoscenza e imprese più avanzate.

In questo contesto dobbiamo costruire le condizioni più adatte affinché il capitale umano sia massimamente valorizzato per creare nuove opportunità anche per le aziende locali dei settori più tradizionali.

La sfida del futuro la dobbiamo vincere facendo squadra, organizzando reti nelle quali tutti i soggetti del nostro territorio possano condividere risorse, energie e progetti secondo un disegno coerente. Reti di soggetti, enti, imprese, organizzazioni che sanno di dover scommettere sui tempi medi, sulla risorsa rappresentata dalla conoscenza, dal territorio, dal formidabile patrimonio artistico e architettonico. La politica, in questo senso, può e deve svolgere un compito decisivo. Noi democratici abbiamo la responsabilità più grande: governare il cambiamento.

Buon lavoro a tutti.

Carlo Emanuele Trappolino

" Il primo compito del Partito Democratico deve essere quello di restituire credibilità alla politica". Rosy Bindi