Ho trovato sul blog "Trappolino's" la relazione presentata al coordinamento comunale di Orvieto del 12/09/2008. Una bel documento che condivido pienamente, mi auguro che riesca in fretta a concretizzare gli ambiziosi, ma indispensabili programmi in esso contenuti, nel migliore dei modi, con l'aiuto di tutto il partito.
Non aggiungo altro, vi aspetta una lunga ed attenta lettura.
A presto. Silvia
Relazione di C.E. Trappolino al coordinamento comunale di Orvieto del 12 settembre 2008
Riprendiamo il lavoro dopo la pausa estiva, tentando di riallacciare il filo del discorso a partire dal punto in cui c’eravamo lasciati: l’ultimo coordinamento di luglio e la “Festa democratica”. Una riflessione – prima di entrare nel merito delle questioni all’ordine del giorno di questa sera – sulla nostra festa, su quello che è stato un bellissimo appuntamento di popolo che, a dispetto degli scetticismi iniziali, ha saputo offrire eventi di grande qualità politica e culturale.
Al Parco Urbano del Paglia ho colto non solo la tenace solidità di una tradizione, quella delle “Feste dell’Unità”, ma anche la voglia di stare insieme e di mescolare storie, sensibilità e idee differenti (avremo modo di dedicare alla festa una riflessione più approfondita in una successiva occasione dedicata al bilancio della festa e alla futura programmazione). Se il Partito Democratico può legittimante porsi come protagonista “sociale” della vita orvietana lo si deve anche a questa capacità di costruire eventi di popolo. Eventi nei quali troviamo la nostra ragion d’essere di partito di massa in un vitale crogiolo di persone e di sentimenti, nel lavoro volontario e appassionato di donne e uomini, nell’energia “originale” dei giovani.
Ci attendono tempi di duro lavoro politico e organizzativo poiché stiamo dentro una sfida importante e che, per diversi aspetti, deciderà il nostro profilo di partito.
Tentiamo allora una prima riflessione sullo stato del nostro Paese, su quell’immagine dell’Italia contesa tra realismo e propaganda, speranze e paure.
E ci chiediamo se dobbiamo dar retta alla Commissione Europea, secondo cui l’Italia sarebbe già nel bel mezzo di una stagnazione oppure convenire con Silvio Berlusconi che dice di essere il presidente del Consiglio “di un Paese molto solido con un alto livello di vita e di benessere”?
Quale interpretazione dare ai dati, questi sì inclini al crudo realismo, che mostrano una crescita tendenziale del PIL del II trimestre che oscilla tra lo 0 e il -0,1%? E davvero il PIL dell’anno salirà, come prevede la Commissione, di un minuscolo 0,1%? Cosa dobbiamo aspettarci dai dati Istat di oggi sulla caduta delle produzione industriale di luglio e che segnano, sul piano tendenziale, una flessione del 3,2%?
C’è anche chi vede più scuro, e sono coloro che, scorgendo nel combinato disposto di inflazione in ascesa ed economie ferme, prevedono un periodo di stagflazione che riguarderebbe gran parte dell’Europa occidentale.
“Siamo – ha detto Mario Draghi - da più di un anno nella più difficile crisi finanziaria dei nostri tempi”.
Non stiamo parlando di roba astratta, di teorie che alla fine poco c’entrano con la vita delle persone.
Da quando la globalizzazione - questa parola così familiare e così arcana – è entrata nella nostra quotidianità, c’è quasi la sensazione di abitare un mondo più piccolo, nel quale l’interdipendenza delle cose ci impedisce l’indifferenza, lasciandoci invece il sospetto che nulla, ormai, ci è veramente estraneo.
È di questi giorni la notizia della nazionalizzazione, da parte del governo statunitense, delle due maggiori società di mutui (Fannie Mae e Freddie Mac). Decisione motivata dal fatto che il certo fallimento di questi colossi avrebbe messo a repentaglio l’intero sistema finanziario statunitense. Com’ è evidente, anche nella patria del neoliberismo operazioni tipicamente stataliste e, potremmo dire, vetero-socialiste possono sempre tornare utili – soprattutto quando ad essere socializzate sono le perdite.
Negli Stati Uniti si nazionalizza alimentando quindi un debito pubblico che non solo è già abbondantemente fuori misura ma che è anche prevalentemente nelle mani dei cinesi. Una lunga deriva accompagna lo spostamento del centro del pianeta dall’Occidente verso Oriente, dove oltre due miliardi di persone stanno premendo per entrare nel mondo dei consumi. Un mercato così grande fa saltare tutti gli equilibri conosciuti, imponendo la propria sintassi non solo sulle relazioni geopolitiche, ma anche sul costo dei beni di prima necessità (e non a caso, qualcuno, divertendosi ad immaginare il ritorno ad un Italia autarchica, ha scoperto quanto siamo dipendenti da altri, intrinsecamente parte del campo relazionale articolato dagli scambi del commercio internazionale).
Rispetto a questo grande movimento di dislocazione di nuove forze e vecchie presenze, l’Italia di Berlusconi affronta questa perigliosa traversata nel peggiore dei modi possibili ma avendo bene in testa un progetto di Paese. Mentre il mondo politico del centrodestra si applica nell’ennesima celebrazione del ventennio fascista, il governo tira dritto in una scientifica opera di promozione dei soggetti e dei ceti sociali a lui più prossimi. Con la scelta di mantenere l’inflazione programmata all’1,7% nel 2008 e all’1,5% per il 2009 - obiettivi del tutto impossibili da raggiungere – si persegue un progetto classista di ridistribuzione regressiva dei redditi. Se l’esecutivo volesse mantenere inalterata quella previsione, i redditi dipendenti registrerebbero in due anni una perdita secca di 1000 euro. E non a caso, lo smantellamento dei provvedimenti anti-evasione fiscale costituisce, in sostanza, “una misura di auto-riduzione selettiva delle imposte concentrata su alcune categorie di contribuenti (che, visto l’andamento del gettito IVA di luglio, hanno prontamente cominciato a beneficiarne)”. Nemmeno troppo velatamente, si comincia a scoprire un disegno teso a colpire i redditi fissi di lavoratori dipendenti, partite iva finte, pensionati. I dati sulle vendite al dettaglio (a giugno si è registrato un -3,4% rispetto al 2007) preannunciano con sin troppa eloquenza quello che dovremmo aspettarci nei prossimi mesi.
Dentro la testa del Governo c’è davvero una precisa idea di Paese rispetto alla quale non sono estranee nemmeno le trovate mediatiche di Alemanno sul ventennio e di La Russa sulla Costituzione.
E bene ha fatto il Presidente Giorgio Napolitano a mettere in campo aperto la questione sulla piena identificazione nei principi e nei valori della costituzione, parlando della necessità di un forte moto di patriottismo costituzionale.
In prospettiva, la politica dei tagli promossa nel DPEF avrà effetti laceranti.
Quasi un terzo delle minori spese riguarda gli enti territoriali. Sono tagli rilevantissimi che, sommati al minor gettito derivante dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa (come noto, solo parzialmente rimborsato ai comuni) produrranno ineluttabili conseguenze, non solo e non tanto sugli sprechi e le inefficienze, ma anche sui servizi a garanzia di diritti sociali (dalle mense nelle scuole, agli asili nido, dai trasporti pubblici locali all’assistenza agli anziani non autosufficienti) e civili.
Anche per quel che concerne la sanità, il piano del governo prevede un contributo statale alla soppressione dei ticket del tutto insufficiente a coprire la totalità della previsione. Morale: o le regioni trovano le risorse necessarie oppure saranno introdotte forme di compartecipazione dei cittadini.
Ma c’è dell’altro: i tagli alla scuola (-130mila lavoratori tra docenti e personale non docente), la reintroduzione, di fatto, di norme ispirate ad una forte deregolazione del rapporto di lavoro (cancellazione della legge 188 e degli “indici di congruità” che assicuravano strumenti efficaci di lotta al lavoro nero e sommerso), le già ricordate “contromisure” che allentano il contrasto all’evasione ed elusione fiscale e al lavoro nero.
Quel che è peggio, mancano le risorse per lo sviluppo. Industria 2015 è stata svuotata e, viste le cifre nel DPEF, è difficile davvero comprendere in virtù di quale miracolo l’Italia potrà alla fine riattivare senza traumi un nuovo e virtuoso ciclo di crescita.
Questi i contorni di quell’idea di società del Governo Berlusconi non solo ingiusta e classista, ma anche incapace di dare risposte ad un ciclo economico che meriterebbe ben altre misure finalizzate alla crescita e alla ridistribuzione (ad esempio, tramite la riduzione delle imposte sui salari e pensioni, innalzando le detrazioni fiscali concesse alle famiglie, rivedendo i tagli alla spesa in conto capitale e reintroducendo un credito di imposta per gli investimenti delle imprese nel mezzogiorno).
Sul decisivo tema del federalismo, con l’approvazione della bozza “Calderoli” in Consiglio dei Ministri si stanno determinando le condizioni, davvero pericolose, per quella che Stefano Fassina hanno definito una specie di “eutanasia dello Stato centrale” in materia di promozione e garanzia dei diritti civili e sociali sanciti dalla Costituzione. Si ripropone una interpretazione estrema del principio di territorialità delle imposte vale a dire: le imposte appartengono soltanto al territorio nel quale si raccolgono. La comunità più larga di cui si è parte per storia, cultura, istituzioni ed economia non ha titoli.
“La radicalizzazione del principio di territorialità – ha scritto Fassina - ha una inevitabile conseguenza: le risorse necessarie a completare il finanziamento delle prestazioni fondamentali (scuola, sanità, assistenza e in parte trasporti) nei territori svantaggiati sono nelle esclusiva disponibilità delle Regioni più ricche, non dello stato centrale così come previsto nella proposta della Conferenza delle Regioni. La perequazione è orizzontale: dalle regioni più ricche alle regioni più povere, senza l’intervento di Roma”.
Senza entrare più nel merito di una riforma destinata a mutare l’infrastruttura sociale, economica e civile del nostro Paese, mi piace citare uno scritto di Giorgio Ruffolo di qualche giorno fa. “Mai come oggi – scrive Ruffolo – l’Italia è apparsa così fragile. E la sua unità così in pericolo. Il pericolo non è un nuovo fascismo. È la decomposizione nazionale e sociale”. Poi aggiunge: “Compito della Sinistra avrebbe potuto essere quello di ricomporre l’unità nazionale in un grande progetto per lo sviluppo economico, l’equilibrio ambientale e il benessere sociale. E di fondare su questo il grande disegno federativo unitario…”.
Dopo la stagione delle feste e l’appuntamento nazionale di Firenze il Partito Democratico ha impresso una forte accelerazione all’iniziativa politica.
In un crescendo molto intenso, le feste hanno attratto la voglia di politica e ridato voce a quell’Italia democratica nient’affatto disposta ad accettare passivamente un berlusconismo della peggior specie.
Dinanzi a noi abbiamo la manifestazione del 25 ottobre a conclusione dell’iniziativa nazionale “Salva l’Italia”. In preparazione di ciò, sono in programma, a livello nazionale, tre appuntamenti che impegneranno il partito nei territori sin dalle prossime settimane. Li riassumo brevemente.
Il 26 e il 27 settembre verrà organizzata una campagna di volantinaggio capillare davanti alle scuole e le università sulle tematiche inerenti le scelte del Governo sulla scuola. Lunedì 29 seguirà, in ogni comune capoluogo, una iniziativa pubblica sui precedenti temi:
Il 3 e il 4 ottobre la campagna di volantinaggio si svolgerà questa volta davanti ai supermercati sulle questioni relative al carovita e alle non-scelte del Governo. Lunedì 6 ottobre si prevede di realizzare una iniziativa pubblica.
Il 10 e l’11 ottobre la campagna di volantinaggio si svolgerà dinanzi alle fabbriche e a tutti i luoghi di lavoro e avrà per oggetto i temi dei salari, dell’occupazione e dello sviluppo. Il 13 ottobre si prevede di realizzare una iniziativa pubblica.
Questa mobilitazione serve per dare un rinnovato slancio all’azione del Partito Democratico sui territori. A Orvieto noi faremo la nostra parte e sin dai prossimi giorni, assieme allo staff e all’organizzazione, metteremo in cantiere il nostro specifico contributo.
Venendo alle questioni del nostro territorio e della nostra città, questo coordinamento comunale prosegue un lavoro con l’obiettivo di consolidare la nostra capacità di governo e di progettazione politica.
Allora: cosa faremo, noi, democratici di Orvieto?
Intanto, dobbiamo continuare a costruire il Partito Democratico. Lo dico nella convinzione di non poter scantonare da questa responsabilità. La nascita del Partito Democratico non è stata una “singolarità” storica compiuta la quale, tutto ritorna quasi come prima, con le solite liturgie e cerimoniali, scambiando quell’atto fondativo per una trovata mediatica.
Le primarie del 14 ottobre segnano una discontinuità nelle vicende politiche nazionali e locali. Discontinuità che per noi è un fatto “costituente”. E se vogliamo essere un partito nuovo, un partito della modernizzazione non dobbiamo avere paura dell’innovazione, di nuove pratiche, di cambiare passo e stile.
Ci attendono appuntamenti importanti. E per affrontarli abbiamo bisogno di un partito radicato, di un partito vero. Iniziamo allora dal tesseramento.
Stiamo entrando in un clima pre-elettorale. Lo rivela una certa mobilitazione dell’opinione pubblica, una evidente propensione alla dichiarazione, all’intervento, alla politicizzazione di fenomeni altrimenti inosservati. È positivo che la città si interroghi, partecipi, domandi e chieda.
Orvieto è una città culturalmente vivace ed è bene che esibisca questo suo carattere nelle occasioni importanti. Il Partito Democratico non è estraneo a questa temperie, a questo nuovo clima. Credo che proprio la nascita del PD abbia in parte contribuito a liberare spazi in precedenza coartati. Non crediamo però di essere gli artefici di tutto questo. La società, anche quella orvietana, è cambiata; e sta cambiando anche il rapporto con la politica.
Ci troviamo dinanzi ad una cittadinanza sempre più competente, informata, consapevole, differenziata. Aumentano i flussi di comunicazione, le letture della realtà, nuovi bisogni anche politici e culturali. È questo il contesto all’interno del quale dobbiamo porci e dobbiamo esercitare la nostra capacità di governo e di governance.
All’aumento della differenziazione sociale (che è sintomo di modernità) corrisponde, sul piano dei poteri, una sempre più evidente “poliarchia”. Sto parlando delle forze sociali, delle organizzazioni di categoria, delle autonomie funzionali. Una crescente complessità difficilmente imbrigliabile dalle vecchie pratiche consensualistiche.
Come parla e cosa dice il Partito Democratico a questa poliarchia? Non è forse ora di intraprendere un confronto di tipo strategico in cui ciascuno si assuma la propria responsabilità al fine di realizzare un progetto condiviso?
Quanto c’è da aspettare perché finisca questo continuo gioco delle parti nel quale la somma delle dichiarazioni conduce sempre allo zero?
Qual è allora il nostro compito? Quello di dover tenere assieme la città tutta secondo una logica di comunità e di solidarietà, proponendo ai soggetti di una città ormai “multipolare” un nuovo metodo e un nuovo scenario dove far agire strumenti di governance. Lo possiamo fare noi perché questa propensione al “bene comune” è davvero un’altra radice costitutiva della nostra cultura e uno degli elementi centrali di quell’etica, storicamente determinata, delle nostre classi dirigenti.
C’è da imparare a leggere i nuovi fenomeni sociali e culturali - anche quelli che fanno rumore la notte – e restituire alla politica il tempo dei progetti, il tempo necessario ad affrontare un nuovo ciclo di immaginazione e di azione. I cinque anni dell’azione di governo possono rappresentare, tutt’al più una parte importante di un progetto più ampio. In ogni caso, non possono definire i confini del possibile e del fattibile.
Noi dobbiamo saper guardare lontano, saper immaginare il futuro senza le preoccupazioni delle scadenze elettorali. Diversi mesi fa ho parlato di “Orvieto 2020” come emblema di una politica capace di respiro. Non ho cambiato idea.
Tutto questo implica la forza di un partito coeso, capace di sintesi sulle analisi e sui progetti fondamentali, in grado di mobilitare le intelligenze e le relazioni. Implica classi dirigenti generosamente protese alla formazione di nuove classi dirigenti. Implica luoghi e strumenti capaci di far circolare le informazioni. Implica, infine, il rispetto per chi la pensa diversamente. “La società aperta è quella nella quale gli uomini hanno imparato ad assumere un atteggiamento in qualche misura critico nei confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull’autorità della propria intelligenza (dopo discussione)”.
Orvieto quindi deve essere una città dove vivere con entusiasmo, dove vengano premiati il merito e il talento e dove la nascita non segna per sempre il destino dei giovani. Una città dove ci si muove…
Un obiettivo, questo, ambizioso e che richiede un ritrovato entusiasmo e protagonismo dei cittadini e delle forze più dinamiche della città. Un obiettivo accompagnato dall’affermazione di chiari valori civici e politici, rispetto ai quali il Partito Democratico deve poter compiutamente rappresentare il momento più alto e più solido. A partire dal tema dell’uguaglianza e delle opportunità. Questi valori rappresentano il criterio di demarcazione tra noi e la destra e il criterio che misure l’efficacia del governo locale. Dobbiamo provare scandalo dinanzi ad una mobilità sociale sempre più ferma e sempre più foriera di crescenti iniquità.
I dati dell’IRPEF ci dicono che i redditi medi degli orvietani si trovano al terzo o quarto posto dell’Umbria. Dobbiamo rallegrarcene, ma questi dati, così come quelli dei depositi bancari, non ci dicono di come questi redditi si intersecano con la mobilità sociale, la creazione di opportunità. Compito della politica, anche nella nostra benestante città, è quello di produrre libertà e chance egualmente distribuite, a partire dalla piena valorizzazione dei talenti e di quell’inesauribile risorsa che è l’intelligenza di donne e uomini.
Il vero cambiamento politico non è quello dettato da una congiuntura sfavorevole o da un evento a noi particolarmente avverso. Non si ragiona bene con la pressione degli eventi. Noi vogliamo imprimere una svolta, un nuovo inizio proprio nel momento in cui c’è la certezza di aver lavorato bene e di aver recuperato forza e determinazione. La nostra affidabilità, competenza, capacità di progetto, la nostra stessa “vocazione maggioritaria” ci obbligano a parlare con voce nuova e con una nuova visione. Il nostro profilo ci induce all’innovazione, individuando anzitutto i soggetti e i valori con i quali vogliamo costruire questo possente movimento di idee e persone.
Fissiamo alcuni punti fermi che devono guidare l’azione politica del nostro partito nei prossimi mesi.
Anzitutto, sul tema delle alleanze il Partito Democratico di Orvieto intende contribuire all’innovazione dell’esperienza di governo di centrosinistra e ciò in ragione:
1) di una lunga tradizione politica e culturale che ha consentito alla città di Orvieto di godere di una stabilità e di conseguire una emancipazione reale dei ceti rurali e subalterni;
2) dell’esigenza di rappresentare efficacemente la complessità della società orvietana;
Tale scelta non ignora la crisi che attraversa e scuote importanti forze della sinistra, alle prese con le contraddizioni di una pratica politica non coerente con le attese di modernizzazione del Paese.
Anche nell’orvietano, quindi, il futuro del centro sinistra passa per una forte capacità di innovare le politiche, i valori, i metodi di governo e di democrazia. Oggi, una mera ripetizione di memorie d’archivio non è né auspicabile né in linea con le sfide che attendono la città.
Siamo consapevoli della complessità dei compiti che ci attendono ed è per questo che chiederemo alla classe dirigente di maggiore esperienza un atto di generosità al fine di promuovere un irrinunciabile avanzamento di nuove figure dirigenti. Il PD, partito nuovo, deve quindi dare il segno di una reale discontinuità pur valorizzando e impegnando tutte le nostre migliori competenze.
Il punto successivo si riferisce alla questione delle primarie. Contrariamente a quanti pensano che le primarie siano una clava da brandire per minacciare questo o quello, io scelgo un approccio meno emotivo. Il percorso sarà quello delineato dallo Statuto e dal Regolamento regionale.
Ritengo opportuno che in attesa dello Statuto e del Regolamento regionale, il Partito Democratico possa intraprendere una serie di azioni che qui elenco sinteticamente:
a) mettersi in ascolto della città, avviando un ampio confronto con gli amministratori pubblici locali, provinciali e regionali, organizzazioni di categoria e sindacali, associazioni di volontariato, culturali e sportive, fondazioni, rappresentanti dell’imprenditoria e del lavoro per definire un quadro sinottico dei processi e dei progetti in corso e per condividere, ove possibile, analisi e strumenti.
b) Predisporre gruppi di lavoro sui tre temi fondamentali dello Sviluppo Locale, del Welfare e della Scuola, Economia della Conoscenza e Formazione. Gruppi dei quali faranno parte i membri del coordinamento comunale e altri soggetti in rappresentanza delle forze sociali, economiche e culturali in grado di contribuire all’elaborazione del manifesto politico del PD per la città di Orvieto.
c) Predisporre iniziative nei circoli del PD al fine di mobilitare la nostra gente in vista dei prossimi appuntamenti politici e amministrativi;
d) Organizzare una serie di iniziative per definire il contesto generale (internazionale, nazionale e regionale) all’interno del quale predisporre la piattaforma politico-programmatica.
Tutto questo impegno troverà compimento nella conferenza politico-organizzativa, da effettuarsi entro la fine di ottobre.
Ritengo inoltre opportuno che questo percorso debba contemplare anche una riflessione collettiva sull’operato delle amministrazioni Comunale e Provinciale, atto doveroso che ritengo possa sancire la reale sostanza democratica della nostra politica.
Vorrei porre ora, alcuni temi che ritengo considerevoli di una nostra particolare attenzione poiché rappresentativi del nostro profilo e di quella che ritengo essere la nostra identità.
Vorrei partire dai giovani. “È tempo di abbattere gli ostacoli che vengono da una società chiusa, soffocata dai corporativismi, e che difende l’esistente e le rendite di posizione. Ridare voce ai giovani è essenziale perché sono loro a porre quella domanda di valorizzazione dei talenti e delle energie e di liberalizzazione della società che è ormai ineludibile”. Questo è quanto scrive il nostro Manifesto dei Valori.
I giovani tengono aperte le porte del futuro perché là dovranno realizzare se stessi, le loro passioni, i loro talenti. Orvieto deve scommettere sui giovani, sulla cultura, sui saperi, sulla creatività. Lo deve fare concretamente: dai servizi alle occasioni di lavoro, dalle biblioteche agli istituti formativi, dal tempo libero allo sport, dalla politica della casa ai servizi per la prima infanzia. Il Partito Democratico deve quindi assumersi, integralmente la responsabile promozione di una nuova classe dirigente che sappia parlare con una voce più vicina alla contemporaneità.
Altro tema decisivo è quello della democrazia. Noi abbiamo un “dovere” costitutivo nei riguardi del concetto di “democrazia”. Il Partito Democratico nasce alimentando le speranze di partecipazione e cambiamento degli italiani. Noi abbiamo allora il “dovere” di esigere una democrazia libera e forte. Una democrazia intesa come partecipazione, inclusione, solidarietà, autogoverno, ma anche come capacità di decisione, assunzione di responsabilità verso il bene comune.
La “democrazia” deve poter essere quotidianamente ampliata, diffusa, alimentata. Dal dialogo, dalla partecipazione, dalla libera discussione nasce quella passione civica necessaria per fare grande la nostra città; nasce il consenso e nuove idee e quel bene comune che è l’intelligenza collettiva, il sapere comune.
Una politica forte, autorevole non teme di ampliare i confini degli strumenti di democrazia, la libera circolazione delle informazioni, la condivisione della conoscenza.
Dalla riflessione sulla democrazia quale “ethos della politica” e dalla consapevole urgenza di predisporre strumenti di governo più adatti a cogliere la trama complessa della società orvietana, possono sorgere i primi segnali dell’innovazione che saremo chiamati a realizzare. Dinanzi ad una città e ad un territorio multipolare, in cui coesistono istanze autonome che determinano effetti reali e incisivi, è necessario un surplus di “intelligenza connettiva” che può trovare un luogo di rappresentazione attraverso l’azione politica.
Intelligenza connettiva per tenere assieme tutta la città e il territorio, per condividere progetti e responsabilità. La politica è quindi chiamata a svolgere un ruolo importante. Anzitutto lavorando affinché città e territorio si affermino sempre più come “bene comune”, occasione di crescita e sviluppo.
Ecco che il tema dei “diritti delle generazioni future” entra nel cono di luce della politica e della progettazione del vivere insieme. Un ingresso da cui è possibile trarre quei “principi di responsabilità”, di “precauzione” e di “cautela” che devono animare molte delle scelte ambientali di chi è impegnato nel difficile governo della città.
Una politica autorevole non agisce per cooptazione ma sulla base del principio di autorevolezza. E la politica del “noi” sarà tanto più autorevole quanto il “dire” e il “fare” potranno riallinearsi.
La politica è troppo spesso sotto la sferza della contingenza, vittima delle emergenze. Soffocata dalla dittatura dei “tempi brevi”: tempi delle scadenze elettorali, tempi delle carriere, tempi che annichiliscono la capacità di cambiare davvero. Tempi, infine, che ripetono il medesimo ritornello della conservazione e della persistenza delle rendite inoperose.
Dobbiamo restituire alla politica la “serenità” del tempo senza assillo, il dispiegarsi pieno del progetto. Per guadagnare ciò, è importante mettere accanto all’io quel “noi” che è capace di proiettarsi, con il senso della comunità, sui tempi lunghi. Quel “noi” si contrappone all’egoismo, alla solitaria fuga nel potere, al pensiero povero che è monologo e non dialogo.
La politica del “noi” deve saper indicare con quali soggetti intende costruire e realizzare una “città nuova”, l’innovazione delle pratiche sociali, culturali, economiche e politiche.
Quello che è in gioco, in questo passaggio storico, non è riconducibile ad una mera questione di tecnica amministrativa. Noi, oggi, dobbiamo saper aprire le porte di un futuro su cui nessuno può vantare diritti in esclusiva. La città sarà quella che “noi” vogliamo che sia. E in quel “noi” ci sono i cittadini, la politica, l’amministrazione, le imprese, le organizzazioni di categoria, le parti sociali, le autonomie funzionali, le associazioni, gli altri enti…
Chi sono, allora, i soggetti con cui noi vogliamo costruire la città del futuro?
Sono anzitutto i giovani, le donne, e tutti quei cittadini che non temono l’innovazione, il merito come criterio di selezione; persone che sentono urgente l’esigenza di porre la grande questione dell’uguaglianza nelle forme rinnovate delle opportunità e del sapere, imprenditori aperti al nuovo che accettano le sfide della globalizzazione, anziani che sentono di poter ancora offrire valori sociali e comunitari e che tuttavia si attendono di poter disporre di servizi all’altezza.
C’è una “città aperta” e “creativa” pronta per dare un senso a questa magnifica avventura che stiamo intraprendendo. La “città aperta” combatte l’immobilismo, le rendite e promuove l’uguaglianza con strumenti e servizi di crescita personale.
Ecco: abbiamo bisogno di una economia che cresce, produca ricchezza diffusa e che valorizzi il lavoro qualificato. L’economia è cambiata: oggi la natura della produzione esige la messa al lavoro dell’intera soggettività dell’individuo, di tutte le competenze sia esse formalizzate o acquisite tramite l’esercizio dei talenti.
Se il “capitale umano” è quindi centrale nel determinare la qualità dello sviluppo di un luogo, altrettanto lo è la capacità dello stesso luogo di attrarre – in virtù dell’apertura, della tolleranza, di un’offerta culturale variegata e aperta alla modernità, di un sistema commerciale flessibile - personalità creative, lavoratori della conoscenza e imprese più avanzate.
In questo contesto dobbiamo costruire le condizioni più adatte affinché il capitale umano sia massimamente valorizzato per creare nuove opportunità anche per le aziende locali dei settori più tradizionali.
La sfida del futuro la dobbiamo vincere facendo squadra, organizzando reti nelle quali tutti i soggetti del nostro territorio possano condividere risorse, energie e progetti secondo un disegno coerente. Reti di soggetti, enti, imprese, organizzazioni che sanno di dover scommettere sui tempi medi, sulla risorsa rappresentata dalla conoscenza, dal territorio, dal formidabile patrimonio artistico e architettonico. La politica, in questo senso, può e deve svolgere un compito decisivo. Noi democratici abbiamo la responsabilità più grande: governare il cambiamento.
Buon lavoro a tutti.
Carlo Emanuele Trappolino
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