La crisi economica che attraversa il nostro globo non risparmia nessuno, tanto meno la nostra regione. I dati fornitici dall’ultimo rapporto dell’AUR (Agenzia Umbria Ricerche), ben evidenziano le debolezze della nostra Umbria rispetto alle altre regioni limitrofe, la mancanza di spirito imprenditoriale dei nostri cittadini, le scelte politiche economiche e di sviluppo applicate dal dopo guerra ad oggi, non ci consentono oggi,di metterci al riparo dallo tzunami della crisi globale. Una politica, troppo accentratrice e di controllo del territorio, non ha permesso l’apertura allo sviluppo, a quello sviluppo inteso come espansione delle libertà sostanziali dove le persone conquistano nel tempo autonomia e indipendenza.
Le amministrazioni pubbliche, a tutti i livelli, negli ultimi 20 anni, si sono sostituite all’iniziativa imprenditoriale, pilotando uno sviluppo economico virtuale, basato sui grandi lavori pubblici, sull’ affidamento a terzi dei servizi pubblici, sull’incentivazione dell’edilizia ad uso civile; inoltre, hanno svolto un ruolo di ammortizzatore sociale, ingigantendo fuor di misura le proprie dotazioni organiche. Siamo tra le regioni con il livello più alto di dipendenti degli Enti Locali.
La nostra città ne è l’esempio tangibile. Terminati i finanziamenti della Legge Speciale per la rupe, abbiamo assistito e tutt’ora assistiamo ad un lento e profondo indebolimento della nostra economia; i servizi pubblici dell’area welfare sono affidati a soggetti terzi, i grandi eventi programmati nel corso dell’anno creano il basilare indotto al commercio, il settore agricolo dipende e vive in gran parte grazie ai fondi comunitari del PSR, le politiche edilizie hanno per obiettivo la crescita delle entrate nelle casse comunali ed il mantenimento occupazionale del settore . Quindi possiamo ben dire che la gran parte della nostra economia scaturisce dalla finanza pubblica e non da una programmazione di un modello di sviluppo scelto dal pubblico.
Il sopra citato rapporto dell’ AUR 2007 cita testualmente: “Altri processi indicano un livello di imprenditorialità, di propensione all’impresa, ben più basso in Umbria, di altre regioni (Ferrucci) particolarmente nelle società di capitali e cooperative che segnano sempre una direzione di impresa più complessa di altre…….Più in generale può essere portata in primo piano una temperie culturale della società regionale e delle sue più forti potenze organizzate, istituzionali, di ricerca e di finanza, che non riesce a fare, pienamente, di questo nodo del “manifatturiero”, la sfida centrale, cosicché, nel parlare delle contraddizioni del “modello umbro”, si è finito, a nostro avviso, in non poche occasioni, per attribuire la sua contraddittorietà alla diffusività dell’intervento pubblico, piuttosto che a qualcosa di più profondo che invece faceva e fa riferimento, oggi ancor di più, ai protagonismi più molecolari delle soggettività più profonde della società umbra”.
Ed ancora Bruno Bracalente, nella sua relazione al forum del PD “Sviluppo e Libertà”: “La mia lettura è che quei punti critici compongono un quadro strutturale nel quale, da un lato, spicca la dimensione ridotta dei motori autonomi della crescita regionale…………….E dall’altro lato, specularmente, emerge chiaramente l’eccessiva dipendenza del sistema umbro da settori e attività economiche che rispondono ad una domanda tutta interna alla regione, protetti in vario modo dalla regolazione amministrativa (dalle costruzioni, alla grande distribuzione commerciale, ai servizi a rete), non esposti alla concorrenza, in parte dipendenti dai flussi di trasferimenti pubblici .”
Capire oggi, con questo tipo di scenario economico globale quale sia il rimedio giusto, il giusto modello di sviluppo, non è semplice.
Si parla del “quarto capitalismo” e della sua evoluzione nel “quinto capitalismo”, dove gli attori principali sono le piccole e medie aziende del settore del manifatturiero, che danno luogo alla rete tra imprenditori, al terziario, all’indotto, all’internalizzazione, purtroppo realtà che sul nostro territorio sono quasi inesistenti, sono coloro che hanno tenuto in vita il tessuto economico italiano nell’ultimo decennio, è il caso del Triveneto; ma anche delle grandi industrie (quinto capitalismo) che intendono sfidare i mercati e la concorrenza globale con la macro rete, composta di grandi, medie e piccole imprese.
Alcuni illustri economisti sostengono che i parametri di lettura della nostra crescita economica, quali il PIL, non sono più adeguati al contesto economico e sociale del ventunesimo secolo. Propongono formule, che tengano in considerazione la qualità della vita di ogni singolo individuo dove lo sviluppo non scaturisce soltanto dal prodotto interno lordo che è prodotto dal saldo del Conto della Produzione, ( anche un incidente stradale contribuisce alla crescita del PIL).
Tra le più interessanti teorie di sviluppo che avanzano quale “la decrescita”, intesa come concetto secondo il quale la crescita economica - concepita come accrescimento costante di uno solo degli indicatori economici possibili, il Prodotto Interno Lordo (PIL) - non è sostenibile per l’ecosistema terra. I sostenitori della Decrescita partono dall'idea che le riserve di materie prime sono limitate, particolarmente per quanto riguarda le fonti di energia, e ne deducono che questa limitatezza contraddice il principio della crescita illimitata del PIL. La ricchezza prodotta dai sistemi economici non consiste soltanto in beni e servizi: esistono altre forme di ricchezza sociale, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza, il carattere democratico delle istituzioni, e così via. La Decrescita vuole ricostruire un patto tra generazioni: bisogna imparare a pensare attraverso la prospettiva di più generazioni e non solo della nostra.
Due scenari sembrano infatti profilarsi all’orizzonte, quello di una decrescita reale, necessaria, subìta, fatta di razionamenti imposti ai più poveri e foriera di prevedibili involuzioni autoritarie, e quello, invece, di una decrescita condivisa, sostenibile e responsabile che al contrario può dischiudere grandi opportunità per la democrazia e l’autogoverno delle società.
Un altro attuale modello di sviluppo è basato sull’identità territoriale, accompagnato dal tema catalizzatore. La costruzione di un tema catalizzatore rientra nell’ambito della riflessione sul divenire del territorio. Ponendosi come obiettivo la realizzazione di un "territorio-progetto", la riflessione è in primo luogo un esercizio di concertazione democratica che prende in considerazione sia le componenti visibili e dominanti di un territorio, sia quelle nascoste. Si tratta di un percorso collettivo che unisce le attività di animazione, la riflessione su idee comuni, la riorganizzazione delle risorse umane ed economiche intorno ad un grande obiettivo condiviso dalle varie parti. Il rinnovamento dell’identità territoriale combinato al tema catalizzatore, può essere un mezzo per creare una forza di coinvolgimento locale, di concertazione istituzionale e di offerta commerciale. Il nome stesso del territorio può evocare questa forza, se opportunamente riconosciuto e valorizzato dai suoi abitanti.
Si evidenzia comunque che in tutte le nuove teorie e nuove pratiche di sviluppo, l’individuo è al centro, anzi è il centro focale, motore e contemporaneamente beneficiario, del sistema. Lo sviluppo non è più il “capitalismo”inteso quale regime economico e di produzione che nelle società avanzate viene a svilupparsi in periodi di crescita, riconducibile a pratiche di monopolio di speculazione e di potenza e l’individuo è considerato esclusivamente fabbricante di ricchezza, ma bensì potremmo definire il nuovo modello di sviluppo “olistico” considerandolo quale un'unità-totalità non esprimibile con l'insieme delle parti. Uno sviluppo che tenga conto di tutti gli insiemi, sociali, ambientali,economici, che da vita ad un’ unica unità che ha per obiettivo l’innalzamento della crescita individuale della qualità della vita.
Praticare sul nostro territorio “lo sviluppo olistico” richiede uno sforzo unanime di tutte le componenti che compongono la nostra società. Le istituzioni, le imprese, le associazioni, i partiti, i singoli individui devono confrontarsi sullo stesso tavolo e contribuire a costruire un modello di sviluppo condiviso, dove ognuna delle parti si senta coinvolta ed attrice della propria crescita ma anche di quella dell’intera collettività e se ne assume la responsabiltà del risultato finale.
Non è più il tempo delle scelte calate dall’alto, del controllo dei processi, il disegno, l’idea, il modello da perseguire deve essere frutto dei vari saperi, delle varie identità e non sorto da un gruppo d’intellettuali e politici detentori di ricette e rimedi plasmati all’occorrenza, spesso in uno stato di emergenza!
La conferenza programmatica del PD è il laboratorio, il tavolo, che non dovrà esaurirsi in poche ore, ma bensì dovrà proseguire nel tempo e sfociare nello sviluppo voluto dal nostro territorio.
Costituente Nazionale del PD
Silvia Fringuello
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