L’appartenenza di genere che cos’è? Ha senso riparlarne, puntualizzare o come pensavamo erroneamente era un dato ormai conquistato e implicito dopo le lotte, i percorsi, i posizionamenti delle donne dagli anni Settanta in poi, dal femminismo storico al pensiero della differenza, passando per le lotte per i diritti , a quelle per la propria autodeterminazione e liberazione, fino alla formulazione di quel pensiero che non si accontentava delle conquiste dell’emancipazionismo e nemmeno del separatismo, ma pretendeva di uscire dall’ombra del non pensato per giungere all’affermazione di un simbolico dove le donne potessero dirsi e riconoscersi in altre donne, nella propria madre che per prima le ha pensate, nella storia, nel pensiero, nella cultura, dopo millenni di assenza.
Non solo ha senso riparlarne oggi ma dobbiamo dirci che noi donne non possiamo sfuggire a questa necessità e a questa responsabilità di una nuova forte assunzione di parola, che non possiamo delegare a nessuno, anzi ognuna di noi può svolgere un ruolo di mediazione per uscire dall’ombra del non pensato, del non detto.
L’appartenenza di genere non è definibile né circoscrivibile in un dato biologico o anagrafico, non coincide riduttivamente con l’essere madre, ma parte da questa condizione ineludibile di essere possibile generatrice di vita, da questa capacità di mettere al mondo: noi possiamo mettere al mondo noi stesse e le altre a partire dalla forza generatrice del pensiero e del vissuto, guardare le altre, dirle, ascoltarle ci permette di farle esistere, di riconoscerle come soggetto pensante, capace di prendere la parola; questo esserci e non aver paura delle proprie idee è il farsi politico delle donne.
Ciò è possibile alla condizione che qualcuna di noi l’abbia pensato e ci permette di metterci in relazione al di là delle nostre differenze ideologiche, della condizione sociale o intellettuale che viviamo nelle nostre singole vite.
Il mondo maschile tenta continuamente di neutralizzare o di cancellare questa forza, questa identità, questa potenza delle donne che fa paura. Sta a noi non lottare o competere con gli uomini dimenticando chi siamo, cadendo nella trappola della omologazione e dell’universalismo neutro, ma piuttosto essere capaci di dialogare con loro senza abbandonare la consapevolezza della nostra differenza, della nostra appartenenza di genere e di vita, senza rinunciare a noi stesse. Un grande sforzo dobbiamo farlo per non lasciarci travolgere dalla banalizzazione che nel quotidiano si fa a proposito delle donne, anche quando ci si vuol solleticare con dei riconoscimenti di pretesa superiorità delle nostre capacità o quando si usa il nostro corpo a pretesto per strumentalizzazioni finalizzate alla repressione e alla soppressione dei diritti.
Il punto non è che una donna voglia rivendicare un potere che ci confonde e che ci priva spesso del discernimento di ciò di cui realmente abbiamo bisogno, ma è mantenerci ferme nella coscienza che noi, insieme alle altre, costituiamo una forza quanto più siamo in relazione con noi stesse, con i nostri bisogni, con i nostri desideri, con lo sforzo di tenerci ancorate alle relazioni umane e di non tradire ciò che abbiamo appreso e che fa parte dei nostri saperi. Così dice Luisa Muraro in un articolo apparso su Via Dogana del settembre 2008:
“noi, nel movimento delle donne, in questi decenni abbiamo imparato a curare la qualità delle relazioni, ad ascoltare, a interloquire, a leggere quello che capita in cielo e sulla terra, a non fare schieramenti, a cercare le parole e le altre mediazioni, ad avere fiducia nell’affacciarsi di qualche risposta buona per le parti in causa. Questa è politica, questa è cultura, questa è religione… non quei resti che si vendono al mercato massmediale, pieno di merce contraffatta”
E’ vero però che l’esperienza di questi ultimi anni ha registrato in qualche modo una resa della pratica politica delle relazioni laddove c’è stato un appiattimento, all’interno dei partiti della sinistra, sulla logica delle divisioni, delle lotte di potere fratricide, degli schieramenti che, come vediamo drammaticamente anche in queste ore, contrappone una politica delle azioni positive, dell’ascolto attivo a una ripetizione di schemi vecchio/nuovo che non generano né libertà femminile né possibilità di riflettere seriamente sugli errori fatti e di ricondurci ad un buon governo, a una possibilità di tenuta delle conquiste democratiche di questo paese.
In questa logica di azzeramento noi possiamo mettere in campo la nostra forza e mettere in gioco le nostre potenzialità se saremo capaci di delineare uno sfondo entro il quale muoverci e al quale ancorarci: la cultura della pace e della solidarietà, della partecipazione e della inclusione, del dialogo e dell’autenticità, l’esercizio della cittadinanza, le battaglie per la riconquista dei diritti che tornano ad esser minacciati, la tutela delle diversità come patrimonio e non come minaccia, a fianco delle giovani generazioni che non possiamo lasciare sole, a sostegno di ogni donna che abbia desiderio e volontà di essere soggetto politico a tutti livelli, a patto che la relazione e la condivisione con le altre donne faccia parte del suo patrimonio di idee e di convinzioni.
Nessuna può camminare da sola, ognuna può imparare a camminare sulle proprie gambe, avendo chiaro che quella parola pronunciata “io sono una donna” ha il potere davvero di cambiare il mondo.
“…narrare è già politica quando è messa in parola la propria esperienza...”
(Simone de Beauvoir)
di Loretta Fuccello
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