domenica 6 giugno 2010
"CONTRO L'ETNOCENTRISMO DELLO SVILUPPO"
Segue.... "LO SVILUPPO OLISTICO" 15/11/2008
Contributo alla conferenza programmatica del Pd di Orvieto
Di SERGE LATOUCHE
Contro l'etnocentrismo dello sviluppo
Seguendo la falsariga dei pubblicitari, i media chiamano «concetto» qualsiasi progetto che si limiti al lancio di un nuovo gadget, ivi compreso di carattere culturale. Non c'è da stupirsi, in queste condizioni, che sia stata posta la questione del contenuto del «nuovo concetto» di decrescita. Correndendo il rischio di deludere, ripetiamo qui che la decrescita non è un concetto, nel senso tradizionale del termine, e che propriamente parlando non esiste una «teoria della decrescita», come gli economisti hanno potuto elaborare delle teorie della crescita.La decrescita è semplicemente uno slogan, lanciato da coloro che procedono a una critica radicale dello sviluppo, con lo scopo di spezzare il conformismo economicista e di delineare un progetto di ricambio per una politica del dopo-sviluppo. (1)
La decrescita in quanto tale non costituisce un'alternativa concreta, ma è piuttosto la matrice che permette di costruire delle alternative (2). Si tratta quindi di una proposta necessaria per riaprire gli spazi dell'inventitività e della creatività, bloccati dal totalitarismo economicista, sviluppista e progressista. Attribuire ai suoi fautori il progetto di una «decrescita cieca», cioè di una crescita negativa senza rimettere in questione il sistema, e sospettarli, come fanno alcuni «alter-economisti», di voler impedire ai paesi del Sud di risolvere i loro problemi, significa essere sordi se non addirittura in malafede.
Il progetto di costruzione, al Nord come al Sud, di società conviviali autonome ed econome implica, per parlare con rigore, più una «a-crescita», come si parla di a-teismo, che una de-crescita. Si tratta d'altronde molto precisamente di abbandonare una fede e una religione: quella dell'economia. Di conseguenza, bisogna senza tregua decostruire l'ipostasi dello sviluppo.
Malgrado tutti i fallimenti accumulati, il legame irrazionale con il concetto-feticcio di «sviluppo», svuotato di ogni contenuto e ri-qualificato in mille modi, traduce l'impossibilità di tagliare i ponti con l'economicismo e, alla fine, con la crescita stessa.
Il paradosso è che gli «alter-economisti», spinti in posizione di difesa, finiscono per riconoscere tutti i misfatti della crescita, pur continuando a volerne far «beneficiare» i paesi del sud. E si limitano, al nord, alla sua «decelerazione». Un numero crescente di militanti «altermondialisti» concedono ormai che la crescita che abbiamo conosciuto non è né sostenibile, né auspicabile, né durevole sia socialmente che ecologicamente. Tuttavia, la decrescita non sarebbe una parola d'ordine valida e il Sud dovrebbe avere diritto a un «tempo» di questa maledetta crescita, per il fatto di non aver conosciuto lo sviluppo.
Messi all'angolo nell'impasse tra «né crescita né decrescita», ci rassegnamo a una problematica «decelerazione della crescita» che dovrebbe, secondo la pratica sperimentata nei concilii, mettere tutti d'accordo su un malinteso. Però, una crescita «decelerata» condanna a escludersi dai vantaggi di una società conviviale, autonoma ed economa, fuori crescita, senza tuttavia conservare il solo vantaggio di una crescita vigorosa ingiusta e distruttrice dell'ambiente: vale a dire l'occupazione.
Se rimettere in causa la società di crescita getta nella disperazione il mondo operaio, come alcuni sostengono, non è però una riqualificazione di uno sviluppo svuotato della sua sostanza economica («uno sviluppo senza crescita») che renderà speranza e gioia di vivere ai drogati di una crescita mortifera. Per capire perché la costruzione di una società fuori crescita è anche necessaria e auspicabile al Sud oltreché al Nord, bisogna ritornare all'itinerario degli «obiettori di crescita». Il progetto di una società autonoma ed economa non è nato ieri, ma si è costruito nel filone della critica allo sviluppo. Da più di 40 anni, una piccola «internazionale» anti o post sviluppista analizza e denuncia i misfatti dello sviluppo, proprio al Sud (3). E questo sviluppo, dall'Algeria di Huari Bumedien alla Tanzania di Julius Nyerere, non era soltanto capitalista o ultra-liberista, ma ufficialmente «socialista», «partecipativo», «endogeno», «self reliant/aucentrato», «popolare e solidale». Sovente era anche messo in opera o appoggiato dalle organizzazioni non governative (Ong) umaniste. Malgrado alcune micro-realizzazioni significative, il suo fallimento è stato considerevole e il programma che doveva portare alla «realizzazione di ogni essere umano e di tutti gli esseri umani» è crollato nella corruzione, nell'incoerenza e nei piani di aggiustamento strutturale, che hanno trasformato la povertà in miseria.
Questo problema concerne le società del Sud, che abbiano intrapreso la costruzione di economie di crescita, per evitare di ritrovarsi più tardi nell'impasse alla quale questa avventura le condanna. Per loro si tratterebbe, sempre che siano ancora in tempo, di «de-svilupparsi» cioè di levare gli ostacoli che si ergono sulla loro strada, per realizzarsi altrimenti. Non si tratta però in alcun caso di fare qui l'elogio senza sfumature dell'economia informale. In primo luogo, perché è chiaro che la decrescita nel Nord è una condizione per la realizzazione di tutte le alternative nel Sud. Fino a quando l'Etiopia e la Somalia saranno condannate, nei momenti in cui la carestia è forte, a esportare prodotti alimentari per i nostri animali domestici, fino a quando ingrasseremo il nostro bestiame da carne con delle gallette di soja prodotte dai terreni conquistati con il fuoco nella foresta amazzonica, soffocheremo qualsiasi tentativo che permetta una vera autonomia al Sud (4).
Se, al Nord, vogliamo davvero manifestare una preoccupazione di giustizia più forte che la sola e necessaria riduzione dell'impatto ecologico, forse bisognerà dare spazio a un altro debito il cui rimborso è a volte richiesto dai popoli indigeni stessi: Restituire. La restituzione dell'onore perduto (quella del patrimonio saccheggiato è molto più problematica) potrebbe consistere nello stabilire una partnership di decrescita con il Sud.
Al contrario, mantenere, o ancora peggio, introdurre la logica della crescita al Sud con il pretesto di farlo uscire dalla miseria creata da questa stessa crescita non può che occidentalizzarlo ancora di più. C'è in questa proposta che deriva da un buon sentimento - voler «costruire scuole, centri di cura, reti di acqua potabile e rinnovare l'autonomia alimentare» (5) - un etnocentrismo banale che è precisamente quello dello sviluppo. Di due cose l'una: o viene chiesto ai paesi interessati cosa vogliono, attraverso i loro governi o con inchieste realizzate presso un'opinione manipolata dai media, e allora la risposta sarà senza incertezze; prima di quei «bisogni fondamentali» che il paternalismo occidentale attribuisce loro, sono richiesti condizionatori, telefonini, frigoriferi e soprattutto automobili (Volkswagen e General Motors prevedono di fabbricare 3 milioni di auto l'anno in Cina nei prossimi anni e Peugeot, per non restare indietro, sta facendo investimenti giganteschi...); aggiungiamo, certo, per la gioia dei loro dirigenti, centrali nucleari, aerei da guerra e carri armati Amx... Oppure ascoltiamo il grido di dolore di un leader contadino guatemalteco: «lasciate in pace i poveri e non parlate più di sviluppo» (6). Scommettere sull'invenzione sociale
Tutti gli animatori di movimenti popolari, da Vandana Shiva in India a Emmanuel Ndione in Senegal, dicono la stessa cosa. Difatti, se incontestabilmente tutti i paesi del Sud vogliono «ritrovare l'autonomia alimentare», questo significa che l'avevano persa. In Africa, fino agli anni '60, prima della grande offensiva dello sviluppo, questa autonomia esisteva ancora. Non è forse l'imperialismo della colonizzazione, dello sviluppo e della mondializzazione che ha distrutto questa autosufficienza e che ogni giorno aggrava un po' di più la dipendenza? Prima di essere massicciamente inquinata dai rifiuti industriali, l'acqua, che venisse o meno dal rubinetto, era potabile. Per quel che riguarda poi le scuole e i centri di cura, siamo così sicuri che siano le istituzioni più adatte per introdurre e difendere cultura e salute? Ivan Illich un tempo aveva avanzato dei seri dubbi sulla loro pertinenza, anche per il Nord (7) .
«Ciò che continuiamo a chiamare aiuto - sottolinea a giusto titolo l'economista iraniano Majid Rahnema - non è che una dipendenza destinata a rafforzare le strutture generatrici della miseria. Invece, le vittime spoliate dei loro veri beni non vengono mai aiutate quando cercano di smarcarsi dal sistema produttivo globalizzato per trovare alternative conformi alle proprie aspirazioni» (8).
Tuttavia, l'alternativa allo sviluppo, nel Sud come nel Nord, non potrebbe essere un impossibile ritorno indietro, né l'imposizione di un modello uniforme di «a-crescita». Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, non può essere altro che una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Formula paradossale che riassume bene la doppia sfida. Possiamo scommettere su tutta la ricchezza dell'inventività sociale per coglierla, una volta che la creatività e l'ingegnosità saranno liberate dalla gabbia economicista e sviluppista. Il dopo-sviluppo, d'altronde, è necessariamente plurale.
Si tratta della ricerca di modi di realizzazione collettiva nei quali non sarà privilegiato un benessere distruttore di ambiente e legami sociali.
L'obiettivo di vivere una buona vita può venire declinato in molteplici modi, a seconda dei contesti. In altri termini, si tratta di ricostruire/ritrovare delle nuove culture. Se siamo per forza obbligati a dargli un nome, possiamo chiamare questo obiettivo umran (realizzazione) come lo fa Ibn Kaldûn (9), swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come lo fa Gandhi, bamtaare (stare bene assieme) come fanno i Toucouleurs, o fudnaa/gabbina (fascino di una persona ben nutrita e senza preoccupazioni) come presso i Borana dell'Etiopia (10). L'importante è segnare il punto di rottura con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto l'egida dello sviluppo o della mondializzazione. Queste creazioni originali, di cui è possibile trovare qui e là degli avvii di realizzazione, aprono la speranza per un dopo-sviluppo.
Senza alcun dubbio, per mettere in opera queste politiche di «decrescita», c'è bisogno come preliminare, al Sud come al Nord, di una vera e propria cura di disintossicazione collettiva. La crescita, in effetti, è stata ad un tempo un virus perverso e una droga. Majid Rahnema afferma giustamente: «per infiltrarsi negli spazi locali, il primo Homo oeconomicus aveva adottato due metodi che non possono che ricordare l'uno l'azione del retrovirus Hiv e l'altra i mezzi impiegati dai trafficanti di droga» (11). Si tratta della distruzione delle difese immunitarie e di creazione di nuovi bisogni. Spezzare le catene della droga sarà molto difficile, anche perché è nell'interesse dei trafficanti (cioè la nebulosa delle società multinazionali) di mantenerci in stato di schiavitù. Tuttavia, abbiamo buone speranze di essere sollecitati dallo choc salutare della necessità.
Serge Latouche*
Fonte:http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/index1.html
Novembre 2004
note:
* Professore emerito di economia dell'università Paris-Sud, presidente di Ligne d'horizon (associazione degli amici di François Partant).
Ultima opera pubblicata: Survivre au développement. De la décolonisation de l'imaginaire économique à la construction d'une société alternative, Mille et une nuits, Fayard, Parigi, 2004.
(1) Cfr. «Sviluppo, una parola da cancellare», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2001. Vedi anche La Décroissance. Le journal de la joie de vivre, Casseurs de pub, 11, place Croix-Pâquet, 69001 Lione.
(2) Cfr. «Brouillions pour l'avenir: contributions au débat sur les alternatives», Les Nouveaux cahiers de l'Iued, n.14, Puf, Parigi-Ginevra, 2003.
(3) Questo gruppo ha pubblicato The Development Dictionary, Zed Books, Londra, 1992. Una traduzione francese è in via di pubblicazione presso Parangon, con il titolo Dictionnaire des mots toxiques.
(4) Senza contare che questi «traslochi» planetari contribuiscono a sregolare ancora di più il clima, che le culture speculative da latifondisti privano i poveri del Brasile di fagioli e che, per di più, si rischiano catastrofi biogenetiche del tipo della mucca pazza...
(5) Jean-Marie Harribey, «Développement durable: le grand écart», L'Humanité, 15 giugno 2004.
(6) Citato da Alain Gras, Fragilité de la puissance, Fayard, Parigi, 2003, p.249.
(7) L'uscita del primo volume delle sue opere complete (Fayard, Parigi, 2004) è l'occasione per rileggere Némésis médicale, che resta assolutamente attuale.
(8) Majid Rahnema, Quand la misère chasse la pauvreté, Fayard/Actes Sud, Parigi-Arles, 2003, p.268.
(9) Storico e filosofo arabo (Tunisi 1332-Il Cairo 1406).
(10) Gudrun Dahl e Gemtchu Megerssa, «The Spital of the Ram's Horn : Boran concepts of development», in Majid Rahnema e Victoria Bawtree, The Post-Development Reader, Zed Books, Londra, 1997, p.52 e seguenti.
(11) Majid Rahnema, ibid., p.214.
(Traduzione di A. M. M.)
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