venerdì 23 aprile 2010

LA REPUBBLICA NATA DALLA RESISTENZA



Giovanni A. Cerutti
La Repubblica nata dalla Resistenza

La scelta compiuta dal governo De Gasperi di stabilire di svolgere nella data del 25 aprile, in cui il Cln diede inizio alla liberazione delle principali città del nord, Milano su tutte, le celebrazioni che ricordassero la fine della guerra, presenta profili che la distinguono da quanto avvenne nel resto d'Europa. In quasi tutti gli altri paesi europei, infatti, si scelse di associare tali celebrazioni alla data della fine della guerra, l'8 maggio.
La decisione venne presa fin dal primo anniversario, nel 1946, ed ebbe come suo principale promotore Giorgio Amendola, allora sottosegretario alla presidenza del consiglio. Amendola, per certi versi, riuniva nella sua biografia alcune delle caratteristiche che avevano definito il percorso dell'antifascismo italiano: il padre Giovanni era stato, prima, uno degli esponenti più significativi del liberalismo giolittiano e, poi, uno dei più risoluti oppositori del nascente fascismo, tanto da morire in seguito alle bastonature ricevute da un manipolo di camicie nere, mentre lui, come molti giovani della sua generazione, aveva individuato nella militanza nel partito comunista l'unica effettiva possibilità di continuare a combattere il regime, ritenendo le scelte degli altri ambienti antifascisti, soprattutto di quelli popolari e liberali, inefficaci. Amendola, che, per altro, sarà uno dei dirigenti della Resistenza italiana che più di tutti avrà ben presente i limiti intrinseci dell'antifascismo italiano, come testimoniano le sue Lettere da Milano e la laterziana Intervista sull'antifascismo degli anni settanta.
Due erano le ragioni che sostenevano questa scelta. La prima, più contingente, mirava a sottolineare il ruolo attivo svolto dagli italiani, attraverso la loro Resistenza, nella liberazione del territorio nazionale in vista dell'imminente discussione del trattato di pace, ai cui tavoli l'Italia si presentava non solo dalla parte degli sconfitti, ma di coloro i quali avevano sostenuto il progetto egemonico hitleriano, con l'aggravante, nemmeno oggi del tutto dimenticata nelle cancellerie europee, di essere entrata in guerra quando ormai il resto d'Europa sembrava in ginocchio. La seconda, di portata strategica, mirava a identificare nelle forze che avevano diretto, almeno a partire dall'estate del 1944, la Resistenza gli unici soggetti politici in grado di ricostruire il tessuto nazionale e di dare forma, attraverso la reciproca coesistenza, a un quadro istituzionale democratico, tanto più che le forze intorno a cui si era mantenuta la continuità istituzionale, su tutte la monarchia e l'esercito, apparivano completamente screditate.
Il primo obiettivo si rivelò sostanzialmente illusorio. Nel trattato di pace l'Italia, infatti, non ottenne significativi riconoscimenti che la affrancassero dalla posizione di partenza. Il secondo, invece, ha permesso il radicamento del sistema politico che nel corso del primo cinquantennio repubblicano ha proceduto alla costruzione della nostra democrazia, anche se la rottura dell'alleanza tra le potenze che avevano sconfitto la Germania e il conseguente sviluppo delle dinamiche della guerra fredda renderanno problematico in tutta Europa, e in Italia in particolare, integrare nel discorso pubblico la legittimazione morale della Resistenza con la legittimazione politica dell'antifascismo, inteso come la somma delle forze che si erano opposte al fascismo.
Questa difficoltà strutturale si è acuita in Italia con il crollo del sistema politico che ormai sempre più correntemente viene definito della prima repubblica. Non solo, infatti, nel giro di qualche mese si sono sbriciolati i partiti che lo componevano, ma nel sistema politico che è emerso da quel crollo si sono ritrovati a coesistere forze politiche che si richiamano al sistema precedente, ma riproponendo al loro interno le fratture che lo avevano caratterizzato, e forze politiche che traggono la loro ragion d'essere dal suo superamento, alcune delle quali si richiamano esplicitamente alle forze che ne avevano sempre contestato la legittimità, con legami, più complessi si quanto abitualmente si ritiene, con l'esperienza del regime fascista e, piuttosto incomprensibilmente, con aspetti della vicenda della Repubblica sociale. È la dialettica in cui siamo imprigionati dalla manifestazione di Milano del 1994, promossa dal Manifesto e da cui non riusciamo a venire fuori.
Ma la Resistenza e i suoi valori ho paura che centrino poco. Piuttosto credo centrino i processi di legittimazione delle forze politiche. Forse non sarebbe irrilevante per risolvere i nostri problemi che si tornasse a studiare - sì a studiare: quanta ignoranza dei fatti e dei processi c'è, ahimè, anche tra chi infarcisce i suoi discorsi a ogni piè sospinto con la lotta antifascista e la nuova resistenza, meglio in questo caso mantenere la minuscola - e a riflettere su cosa è stata davvero la Resistenza europea, su come abbia costruito sull'opposizione frontale al totalitarismo un modo di concepire la convivenza tra gli uomini che avesse al centro la dignità umana, la cui assoluta rilevanza va ben oltre le forme istituzionali in cui si è risolta nella seconda metà del Novecento. Andrebbe, infatti, sempre tenuto presente, come ha scritto Norberto Bobbio, che se per essere democratici non si può non essere antifascisti, essere antifascisti non significa di per sé essere democratici. E la democrazia è il risultato di un apprendimento continuo, in grado di confrontarsi con il mutare dei tempi storici.

FONTE:www.formazionepolitica.org
FONTE IMMAGINE:www.partecipiamo.it

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