Al termine della seconda edizione del corso formativo “Cultura di genere e Pari Opportunità” organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia, un gruppo di donne che vi hanno partecipato, Angela Alia studentessa universitaria, Silvia Fringuello presidente dell’associazione femminile Emily in Italia Umbria, Seriana Mariani dipendente Enti Locali, Giuseppina Mattoni Vice presidente dell’associazione Croce Rossa di Deruta, Daniela Rucci studentessa universitaria e Stefania Sorci studentessa universitaria, hanno presentato ai propri docenti universitari, un documento scaturito dalle nozioni apprese durante il corso, rivolgendo una particolare attenzione ai dati che riguardano la rappresentanza del genere femminile nell’elettorato passivo in Umbria, avente titolo: “ Il problema delle pari opportunità nell’elettorato passivo: proposte per una legge elettorale dell’Umbria”.
Il testo riporta dapprima la storia ed il contesto legislativo in Europa, in Italia ed in Umbria della cittadinanza politica delle donne e della loro rappresentanza nelle assemblee elettive, fornendo una ricca ricerca storica ed attuali dati statistici, in seguito evidenzia il concetto di pari opportunità e le azioni positive atte al conseguimento dell’obiettivo della “non discriminazione di genere”, supportata da leggi elettorali in vigore nello Stato Italiano ed infine propone tre ipotesi di articoli per la legge elettorale per l’Umbria, formulate sulla base dei tre sistemi elettorali, proporzionale, maggioritario e misto, che regolamentano la composizione delle liste e l’espressione delle preferenze, nel rispetto della pari rappresentanza del genere femminile e di quello maschile.
Visto l’interesse che ha suscitato il documento nei docenti e nei partecipanti del corso, il gruppo di donne che vi ha lavorato, ha inteso incontrare la Vice Presidente del Consiglio Regionale Mara Gilioni e la Presidente della Commissione per le riforme statutarie e regolamentari Ada Girolamini, affinché il testo possa essere utile all’attualissima discussione sulla riforma della legge elettorale in Umbria .
Entrambe hanno apprezzato e lodato l’iniziativa, la Presidente Girolamini ha proposto un incontro/audizione con la Commissione per le riforme statutarie e regolamentari alla presenza di tutti i capi gruppo dei partiti presenti in Consiglio Regionale, da fissare entro il mese di settembre , la Vice Presidente del Consiglio Regionale Gilioni si è impegnata a diffondere il documento presso i propri colleghi Consiglieri. Inoltre, a breve, il testo di legge verrà consegnato alla Presidente della Regione Umbria Rita Lorenzetti, nella quale si confida il suo diretto impegno politico, al fine di realizzare anche nella nostra regione una legge elettorale che rispetti le pari opportunità per tutti.
Perugia lì 27 luglio 2009
Silvia Fringuello
lunedì 27 luglio 2009
domenica 26 luglio 2009
I PARTITI E LA CONTESA TRA NORD E SUD
La debole unità di un Paese
Dobbiamo davve ro preoccuparci per l’unità futu ra del Paese? Di che cosa è sintomo la sciatteria fin qui dimo strata, e denunciata da Er nesto Galli della Loggia, nella preparazione delle celebrazioni per i cento cinquanta anni dell’unità d’Italia? E, ancora, che co sa indicano le voci intor no alla possibile nascita di una «lega sud» che po trebbe domani contrap porsi frontalmente al «partito del nord»? Davve ro la Lega Nord ha ormai «vinto», quanto meno sul piano culturale, come ha scritto Alessandro Campi sul Riformista , tal ché l’unità morale del Pae se sarebbe già irrimedia bilmente svanita?
I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizza zioni a cui gli uomini dan no vita. E’ ormai dalla fi ne della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capa cità integrativa, o federati va, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, vie ne chiamata Prima Re pubblica, l’unità del Pae se dipendeva dal ruolo fe deratore svolto dalla Democrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne in sieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chie sa) di acutizzarsi dispie gando tutta la loro poten ziale capacità disgregati va. Nel suo ruolo di parti to di maggioranza relati va la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lombardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio.
Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del lega me fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fa se storica, seguita alla dit tatura e alla sconfitta belli ca, in cui l’eredità risorgi mentale era stata seriamente lesionata e logora ta sul piano politico-sim bolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lun go periodo dominato da una (sciagurata) pedago gia negativa sul Risorgi mento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memo ria converrebbe riprende re in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia pa tria circolanti nella scuo la pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settan ta.
Dunque, piaccia o me no, è ai partiti politici che bisogna guardare per ca pire quale sorte sia riser vata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettiva mente, l’estrema precarie tà della situazione che vi viamo salta agli occhi. Al la Dc è sì succeduto un al tro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Pae se. Il partito federatore, subentrato alla Democra zia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo parti to sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quan to accadde negli anni No vanta. Spazzati via i parti ti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusco ni, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lascia to dalla Democrazia Cristiana.
Ma il Popolo della Li bertà ha due evidenti pun ti di debolezza. Il primo è che si tratta di un contenitore mal amalgamato, na to dalla recentissima fu sione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mante nere competitivo il cen trodestra nel momento in cui è stato creato il Parti to democratico.
Dovesse quest’ultimo dividersi (e la pos sibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sor te. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmen te, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi.
Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politi ca? Si frantumerà, come è probabile, se guendo la sorte di tanti altri partiti carisma tici? Oppure sperimenterà quel raro feno meno che viene detto «istituzionalizzazio ne del carisma», sopravvivendo politica mente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è conte nuta proprio nelle risposte a queste doman de.
Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si fran tumasse in due tronconi, uno di cen tro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali pos sono essere lette anche come un’anticipa zione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipenden te » esaspererebbe le spinte centrifughe. Ve nuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, og gi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancor ché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove ve nisse meno il federatore?
L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tron coni territorialmente contrapposti, si capi sce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizio ne, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese.
È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplen za diventando gli (involontari) garanti del la coesione sociale e politica.
Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi.
Angelo Panebianco
Fonte: corriere della sera
venerdì 24 luglio 2009
“Non sono un santo/a”
Nemmeno io "sono una santa" e nemmeno ambisco ad esserla,mi sforzo di essere soltanto una donna di buon senso e nei limiti del possibile saggia......Buona lettura.
A presto. Silvia
"“Non sono un santo”
Non sono un santo. Chi non potrebbe confessare la stessa cosa? Chi potrebbe pensare il contrario di sé e degli altri? La Chiesa ci insegna che ognuno, quando si presenta davanti a Dio, deve confessare con sincerità di non essere un santo, anzi, precisamente di essere un peccatore bisognoso di perdono e di conversione. È regola generale di ogni religione che non ci si presenti davanti a Dio e alla comunità dei credenti se non nella forma dell’umiltà a capo chino, come il pubblicano di cui parla il Vangelo, che rimane in fondo al tempio e si batte il petto, e non come il fariseo che si mette in prima fila e osserva gli altri dall’alto in basso. Quindi va molto bene riconoscere anche pubblicamente di non essere un santo.
Ma se la frase viene detta sorridendo, alludendo e ammiccando alle “tante belle figliole” che ci sono in giro, è evidente che la frase assume un significato diverso, come un’auto-legittimazione di comportamenti quanto meno disinvolti.
Il rischio che dalla disinvoltura si passi poi alla vera e propria trasgressione deve essere messo in conto. Anche perché tutti siamo portati a legittimare le piccole o grandi licenze morali. E ciò avviene anche per quel clima culturale in cui tutto è ammesso meno il cosiddetto moralismo. Questo è considerato uno dei più disprezzati atteggiamenti che la società permissiva rifiuta. Meglio il libertino, il trasgressivo che il moralista, descritto spesso come un bieco bacchettone che riprende i costumi sociali per un vago sentimento di perbenismo più o meno ipocrita e retrivo. Anche alcuni predicatori à la page, quando svolgono i loro sermoni, ci tengono a specificare “non voglio fare del moralismo”.
Storie simili, di strane derive semantiche (di significato) sono accadute a termini come perbenismo e buonismo. C’è da vergognarsi a essere perbenisti o tanto peggio se buonisti. Bisogna essere machi e forti, decisi, senza pietà, duri, menefreghisti, indifferenti al bigottismo dei baciapile e al pietismo dei cuori compassionevoli. In fondo “non siamo santi”, e quindi viviamo in pace. Un bicchiere di birra in mano fino alle 4 di notte, un cocktail di alcolici alle 6 del pomeriggio con patatine, amici ed amichette, incontri ravvicinati facili e multipli di giorno e di notte. Così va il mondo e nessuno lo frena.
Ora, se uno critica la critica al moralismo, al perbenismo e al buonismo non può che essere di quella risma, diranno i lettori: un bieco e subdolo moralista. Ma, piano, un momento. Non potrebbe esserci una terza via? Quella della ragione, della riflessione sulla realtà che ci circonda?
La famosa deregulation, che significa allentare o togliere le regole del mercato e della finanza, ha portato alla crisi finanziaria ed economica catastrofica. Gli psicologi e i pedagogisti parlano dei limiti che si devono porre e i no che si devono dire ai ragazzi e ai giovani per aiutarli a crescere. I medici insegnano, magari agli altri, di astenersi da droghe, alcol, fumo per risparmiare anni di vita e danni alla società. Si potrebbe continuare sul filo della ragione, magari di quella stoica, per non tirare in ballo la religione cristiana che suscita diffuse allergie nella tollerante società dei libertini indifferenti.
Non siamo santi, né perbenisti, né buonisti, ma un pizzico di buon senso e di saggezza non dovrebbe mancare, almeno in chi sta sopra un piedistallo mediatico in bella vista, senza neppure un pizzico di pudore."
Fonte: La Voce
Elio Bromuri
A presto. Silvia
"“Non sono un santo”
Non sono un santo. Chi non potrebbe confessare la stessa cosa? Chi potrebbe pensare il contrario di sé e degli altri? La Chiesa ci insegna che ognuno, quando si presenta davanti a Dio, deve confessare con sincerità di non essere un santo, anzi, precisamente di essere un peccatore bisognoso di perdono e di conversione. È regola generale di ogni religione che non ci si presenti davanti a Dio e alla comunità dei credenti se non nella forma dell’umiltà a capo chino, come il pubblicano di cui parla il Vangelo, che rimane in fondo al tempio e si batte il petto, e non come il fariseo che si mette in prima fila e osserva gli altri dall’alto in basso. Quindi va molto bene riconoscere anche pubblicamente di non essere un santo.
Ma se la frase viene detta sorridendo, alludendo e ammiccando alle “tante belle figliole” che ci sono in giro, è evidente che la frase assume un significato diverso, come un’auto-legittimazione di comportamenti quanto meno disinvolti.
Il rischio che dalla disinvoltura si passi poi alla vera e propria trasgressione deve essere messo in conto. Anche perché tutti siamo portati a legittimare le piccole o grandi licenze morali. E ciò avviene anche per quel clima culturale in cui tutto è ammesso meno il cosiddetto moralismo. Questo è considerato uno dei più disprezzati atteggiamenti che la società permissiva rifiuta. Meglio il libertino, il trasgressivo che il moralista, descritto spesso come un bieco bacchettone che riprende i costumi sociali per un vago sentimento di perbenismo più o meno ipocrita e retrivo. Anche alcuni predicatori à la page, quando svolgono i loro sermoni, ci tengono a specificare “non voglio fare del moralismo”.
Storie simili, di strane derive semantiche (di significato) sono accadute a termini come perbenismo e buonismo. C’è da vergognarsi a essere perbenisti o tanto peggio se buonisti. Bisogna essere machi e forti, decisi, senza pietà, duri, menefreghisti, indifferenti al bigottismo dei baciapile e al pietismo dei cuori compassionevoli. In fondo “non siamo santi”, e quindi viviamo in pace. Un bicchiere di birra in mano fino alle 4 di notte, un cocktail di alcolici alle 6 del pomeriggio con patatine, amici ed amichette, incontri ravvicinati facili e multipli di giorno e di notte. Così va il mondo e nessuno lo frena.
Ora, se uno critica la critica al moralismo, al perbenismo e al buonismo non può che essere di quella risma, diranno i lettori: un bieco e subdolo moralista. Ma, piano, un momento. Non potrebbe esserci una terza via? Quella della ragione, della riflessione sulla realtà che ci circonda?
La famosa deregulation, che significa allentare o togliere le regole del mercato e della finanza, ha portato alla crisi finanziaria ed economica catastrofica. Gli psicologi e i pedagogisti parlano dei limiti che si devono porre e i no che si devono dire ai ragazzi e ai giovani per aiutarli a crescere. I medici insegnano, magari agli altri, di astenersi da droghe, alcol, fumo per risparmiare anni di vita e danni alla società. Si potrebbe continuare sul filo della ragione, magari di quella stoica, per non tirare in ballo la religione cristiana che suscita diffuse allergie nella tollerante società dei libertini indifferenti.
Non siamo santi, né perbenisti, né buonisti, ma un pizzico di buon senso e di saggezza non dovrebbe mancare, almeno in chi sta sopra un piedistallo mediatico in bella vista, senza neppure un pizzico di pudore."
Fonte: La Voce
Elio Bromuri
Franceschini o Bersani?
Ho appena ricevuto il documento del segretario provinciale di Perugia, Stramaccioni.....appena l'avrò letto vi farò sapere.....
A presto. Silvia
"Franceschini o Bersani? Gli esponenti locali di spicco del partito esprimono le rispettive preferenze, e perché
Con chi si schiera il Pd umbro
Il Pd umbro non va in vacanza. Le elezioni regionali del prossimo anno - non più scontate - possono aspettare un po’, ma c’è da chiudere la questione del segretario nazionale (e regionale). E si assiste già al posizionamento dei principali protagonisti, con qualche sorpresa. La presidente Maria Rita Lorenzetti ha scelto Pierluigi Bersani perché lo ritiene il più capace nel tenere in equilibrio le varie culture del partito. La parlamentare del Pd, Marina Sereni, ha scelto Dario Franceschini, perché “l’Italia ha bisogno di una grande forza riformatrice, in grado di rispondere alle ansie e alle insicurezze dei ceti popolari e alla domanda di modernità, di dinamismo e di efficienza di quelli produttivi e delle aree più avanzate. Senza questo partito progressista, l’alternativa alla destra che sta governando semplicemente non c’è. Un’alleanza di centrosinistra che voglia essere credibile per governare il Paese e farlo uscire dalla crisi risolvendo le contraddizioni, vecchie e nuove, che frenano la crescita economica, sociale e civile, non può che essere costruita attorno ad una visione forte di cambiamento”.
A sorpresa, l’assessore regionale Maria Prodi appoggia Bersani, auspicando un partito “trasparente ed adulto” perché “chi oggi si propone come campione delle primarie deve spiegare perché le stesse primarie fondative sono state addomesticate, depotenziate di contendibilità, e soprattutto perché sono state accodate ad un voto già predefinito le liste bloccate per gli organismi di partito”. In effetti le primarie, considerate uno strumento di grande democrazia in altre realtà (negli Usa), qui non hanno funzionato perché non fanno parte della nostra tradizione politica e sono state gestite dall’alto. E quindi sono state svuotate di significato.
La contrapposizione, un po’ abusata, tra vecchio e nuovo, tra attenzione all’apparato e desiderio di cambiamento, domina l’analisi degli esponenti politici regionali, che affrontano anche la situazione dell’Umbria, segnata dalla crisi e da un modello di sviluppo che non funziona più. Non manca il “tormentone” sull’eventuale terzo mandato alla presidente Lorenzetti. Nei commenti, la premessa di rito è che non è una questione all’ordine del congresso (regionale) e che comunque va valutata nell’ambito della coalizione e a certe condizioni. Anche se un eventuale “regno” di 15 anni potrebbe far pensare ad una regione, l’Umbria, dove sia di difficile applicazione il ricambio della classe dirigente.
Le cosiddette truppe dei due schieramenti (Bersani e Franceschini, perché gli altri candidati non hanno una base solida) si stanno contando, disegnano strategie, immaginano candidati alla guida del partito in Umbria. In questo contesto il segretario provinciale del Pd, Alberto Stramaccioni, prosegue nel suo tentativo di richiamare all’unità del partito evitando “le ostilità interne” capaci di aumentare i rischi in vista delle elezioni regionali del prossimo anno. Sarà ascoltato?"
Da La Voce
Emilio Querini
A presto. Silvia
"Franceschini o Bersani? Gli esponenti locali di spicco del partito esprimono le rispettive preferenze, e perché
Con chi si schiera il Pd umbro
Il Pd umbro non va in vacanza. Le elezioni regionali del prossimo anno - non più scontate - possono aspettare un po’, ma c’è da chiudere la questione del segretario nazionale (e regionale). E si assiste già al posizionamento dei principali protagonisti, con qualche sorpresa. La presidente Maria Rita Lorenzetti ha scelto Pierluigi Bersani perché lo ritiene il più capace nel tenere in equilibrio le varie culture del partito. La parlamentare del Pd, Marina Sereni, ha scelto Dario Franceschini, perché “l’Italia ha bisogno di una grande forza riformatrice, in grado di rispondere alle ansie e alle insicurezze dei ceti popolari e alla domanda di modernità, di dinamismo e di efficienza di quelli produttivi e delle aree più avanzate. Senza questo partito progressista, l’alternativa alla destra che sta governando semplicemente non c’è. Un’alleanza di centrosinistra che voglia essere credibile per governare il Paese e farlo uscire dalla crisi risolvendo le contraddizioni, vecchie e nuove, che frenano la crescita economica, sociale e civile, non può che essere costruita attorno ad una visione forte di cambiamento”.
A sorpresa, l’assessore regionale Maria Prodi appoggia Bersani, auspicando un partito “trasparente ed adulto” perché “chi oggi si propone come campione delle primarie deve spiegare perché le stesse primarie fondative sono state addomesticate, depotenziate di contendibilità, e soprattutto perché sono state accodate ad un voto già predefinito le liste bloccate per gli organismi di partito”. In effetti le primarie, considerate uno strumento di grande democrazia in altre realtà (negli Usa), qui non hanno funzionato perché non fanno parte della nostra tradizione politica e sono state gestite dall’alto. E quindi sono state svuotate di significato.
La contrapposizione, un po’ abusata, tra vecchio e nuovo, tra attenzione all’apparato e desiderio di cambiamento, domina l’analisi degli esponenti politici regionali, che affrontano anche la situazione dell’Umbria, segnata dalla crisi e da un modello di sviluppo che non funziona più. Non manca il “tormentone” sull’eventuale terzo mandato alla presidente Lorenzetti. Nei commenti, la premessa di rito è che non è una questione all’ordine del congresso (regionale) e che comunque va valutata nell’ambito della coalizione e a certe condizioni. Anche se un eventuale “regno” di 15 anni potrebbe far pensare ad una regione, l’Umbria, dove sia di difficile applicazione il ricambio della classe dirigente.
Le cosiddette truppe dei due schieramenti (Bersani e Franceschini, perché gli altri candidati non hanno una base solida) si stanno contando, disegnano strategie, immaginano candidati alla guida del partito in Umbria. In questo contesto il segretario provinciale del Pd, Alberto Stramaccioni, prosegue nel suo tentativo di richiamare all’unità del partito evitando “le ostilità interne” capaci di aumentare i rischi in vista delle elezioni regionali del prossimo anno. Sarà ascoltato?"
Da La Voce
Emilio Querini
mercoledì 8 luglio 2009
Bersani: testo integrale del documento a supporto della sua candidatura a segretario del PD
Cari amici e compagni, la prima parola la voglio dire per testimoniare il cordoglio nostro per le vittime dell’assurda strage di Viareggio e per dare solidarietà alle famiglie dei morti e dei feriti. Vorrei che ci raccogliessimo in un minuto di silenzio.
Subito qualche scusa e ringraziamento. Mi scuso, intanto, con le centinaia di persone che sono fuori da qui e mando loro un saluto. Mi dispiace, non pensavamo ad un’affluenza di questo genere. Un ringraziamento fatemelo fare – anche se non tutti ce ne siamo accorti in questo momento particolare – allo staff di Vasco Rossi che ha voluto regalarci un minuto di una rielaborazione di una bellissima sua canzone. Questo mi ha fatto molto piacere. E ringrazio voi, naturalmente, tutti voi, per aver raccolto il mio invito che, come sapete, è rivolto in particolare alla nuova generazione che è già in campo. Così farò in altri appuntamenti, in altre iniziative al nord ed al sud del Paese.
Non c’è bisogno di inventarsi una nuova generazione, neanche c’è bisogno di raffigurarla per simboli! Bisogna aprirle la strada. In primo luogo, aprirle la strada facendo in modo – e cominciamo qui – che possa direttamente prendere in mano, in ogni luogo del Paese, la discussione politica che avremo. E, in secondo luogo, facendo in modo che questa generazione possa misurarsi ad ogni livello nelle funzioni esecutive del partito. È quello che mi impegno a fare, a cominciare dal livello nazionale. È giusto che chi si predispone a sostenermi sappia bene come la penso a questo proposito.
Io ho in mente un partito nel quale c’è rispetto, rispetto per la generazione precedente; e un partito nel quale la generazione che viene prima, considera suo compito aprire subito la strada alla nuova generazione, sostenendola ed accompagnandola. Ho detto che avremo una discussione politica, finalmente una discussione politica! Una discussione sull’Italia e su noi, per renderci più utili alla riscossa del nostro Paese e agli interessi e ai valori che vogliamo rappresentare.
In questi mesi ci si deve accorgere che vogliamo avvicinare il Partito Democratico all’Italia. Dobbiamo guardare in faccia la realtà. In questi venti mesi abbiamo suscitato molte speranze, e una parte di queste speranze è rimasta delusa.
Molti elettori si sono allontanati da noi. Abbiamo vissuto in molti luoghi del Paese il venir meno della solidarietà fra di noi. Fenomeni di ripiegamento, di divisione, perfino di anarchismo. Le elezioni hanno segnalato, in particolare, un indebolimento del nostro legame con ceti popolari e ceti produttivi, confermandoci che la destra, quando vince, vince nel popolo.
E, tuttavia, di fronte a tutto questo non è mancato nelle nostre file la capacità di mobilitazione, di reazione. Nel pieno di una battaglia difficile abbiamo mostrato punti significativi di tenuta. Il nostro progetto non è stato mai messo in discussione. Franceschini lo ha detto e sono d’accordo con lui. Abbiamo le condizioni politiche per riaffermare il progetto e per rimetterlo in cammino.
Ma ecco il punto di partenza, che mi indusse mesi fa ad annunciare la mia candidatura. Secondo me, ci sono forti correzioni da fare. Chiariamo subito un punto: non si dica che i nostri problemi sono venuti dal presunto tradimento di un’ispirazione originaria. I nostri problemi sono venuti dal non aver messo ancora il nostro progetto su basi culturali, politiche ed organizzative abbastanza solide. Questo è il nostro problema e questo è il problema che il Congresso deve risolvere. Un congresso, quindi, fondativo del nostro partito.
Lo dico con franchezza: se non prenderemo in mano noi stessi, autonomamente e responsabilmente il nostro destino, se ci faremo prendere la mano da una discussione confusa e tutta mediatica, se ci attarderemo a discutere su categorie inafferrabili, su chi è democratico doc e chi no, sul nuovo e sul vecchio, sul vecchio e sul giovane, su chi deve star dentro e chi deve andare fuori, su chi ha la cravatta e chi no, io credo che gli italiani, giustamente, rivolgeranno lo sguardo altrove.
E noi ci ritroveremo senza solidarietà, senza contenuti e, temo, anche senza partito. Io cercherò un’altra strada. Io farò un congresso contro nessuno, discutendo di politica e cercando, per quello che mi sarà possibile, di essere chiaro e concreto, di evitare la retorica. Forse ne abbiamo usata troppa in questi venti mesi e alla fine non ha scaldato il cuore. Gli italiani non l’amano.
In una discussione vera, per me, non c’è bisogno di supporters. C’è bisogno della testa e della testa di tutti. Io ci metterò la mia testa, come ho sempre fatto. Io sono il candidato di nessuno, e sono il candidato che pensa che ci sia bisogno di tutti. Di tutti. Dirò l’essenziale di quel che penso sull’Italia, sui nostri compiti politici, sul partito, sapendo bene che, come capita in questi casi, non potrò essere breve. Dovrete avere un pò di pazienza. Neanche riuscirò ad essere esaustivo, e me ne scuso!
Voglio partire con una premessa per me non di poco conto. Prima di parlare d’Italia e di parlare agli italiani, dovremmo avere un’idea un pò più chiara sulla nostra carta d’identità, sul nostro biglietto da visita. Noi abbiamo affermato e ancora sento affermare l’esigenza di un partito post-identitario. Io non ci credo, non ho mai capito cosa significasse.
L’idea secondo la quale affidandoci a labili e forse ovvii riferimenti valoriali e ad un pò di eclettismo nella cultura politica, ce ne venissero larghezza di orizzonti, forza attrattiva, credo sia un’idea infondata, perché senza un’identità riconoscibile ogni gesto, anche il più provvisorio, il più tattico, mette un interrogativo su chi sei davvero.
Senza un’identità riconoscibile ti privi di un messaggio di senso verso le generazioni nuove. Senza un’identità riconoscibile ti disarmi verso una destra che sparge ideologia, cioè un senso comune, un sistema di concetti che vengono prima della proposta politica o dell’azione di governo. Il “berlusconismo”, il “leghismo” li definiremmo forse post-identitari, post-ideologici? Eppure è con questi che noi abbiamo a che fare e, quindi, alla fine di questo congresso dovremmo aver detto qualcosa di più chiaro su di noi. Io parlo di un Partito Democratico che vuole interpretare ed estendere l’area del centrosinistra con il profilo di un partito popolare, un partito di una sinistra democratica e liberale che abita dove abitano le forze progressiste, socialiste, liberaldemocratiche del mondo, che partecipa all’alleanza tra socialisti e democratici in Europa. Parlo di un partito popolare, quindi non classista, non elitario, non populista, radicato in ogni luogo e capace di esperienze e di linguaggi che siano legati alla vita reale.
Un partito che si rivolge ad un arco ampio di ceti, di categorie sociali, ma che non può vivere scollegato dai ceti popolari, dai ceti produttivi e dalle nuove generazioni. Un partito, dicevo, che interpreti l’area del centrosinistra col profilo di una sinistra democratica e liberale, cioè di un partito che si ispira ad un’idea di uguaglianza e la rende concreta sia attraverso un mercato aperto e regolato, che distribuisca equamente occasioni, sia attraverso politiche pubbliche, sociali e universalistiche di ridistribuzione, di welfare, di promozione dei beni collettivi.
Per me, il Partito Democratico è un partito del lavoro, nella molteplicità dei suoi aspetti e dei suoi protagonisti, che rivendica la dignità e il ruolo sia del lavoro subordinato, sia di quello autonomo e imprenditoriale. Nel concreto, ne sostiene la prevalenza rispetto alle rendite e ad ogni privilegio. Il Partito Democratico, per me, è un partito laico, che non per questo banalizza o relativizza convinzioni o valori, crede anzi nella forza positiva delle convinzioni filosofiche e religiose. E, tuttavia, le distingue dalla responsabilità autonoma della politica, che ha il compito di promuovere decisioni pubbliche, tenendo conto della coscienza di tutti. Così come è stato insegnato dalle radici profonde della cultura cattolico-democratica.
Il Partito Democratico riconosce nella sfera dei diritti civili un fattore fondamentale di avanzamento umano, attraverso l’affidamento progressivo alla libertà e alla responsabilità dell’individuo di questioni che prima erano ricondotte ad una dimensione di etica pubblica. Ho fatto altrove questo esempio: fino a pochi anni fa lo stupro era un reato contro la morale; chi lo definirebbe così adesso? Adesso è un reato contro il diritto all’intangibilità della persona! Il PD riconosce l’esigenza di regolare i possibili usi distorsivi della tecnica, il rischio della sovranità della tecnica, in particolare per quel che riguarda la possibile manipolazione dell’uomo.
Quando la politica è chiamata ad avvicinarsi ai temi cruciali della persona e della condizione umana il Partito Democratico fa riferimento ad un umanesimo forte, di natura cristiana e laica, che vive nelle radici profonde della nostra cultura politica e che non consente che, come debba, morire io lo decida il senatore Gasparri o il senatore Quagliariello,
che non consente che lo Stato invada i mondi vitali della persona e della famiglia. Il Partito Democratico è il partito del nuovo civismo, non perché pretenda di essere un’autorità morale, ma perché vuole promuovere una società organizzata su diritti e su doveri e su quella regolazione implicita della società, che prenda forza da comportamenti ispirati al civismo. E questo a partire dalla sobrietà della politica, come primo punto di questa riscossa civica.
Infine, il Partito Democratico è il partito del nuovo secolo, un partito contemporaneo, fortemente orientato alla modernità. Vuole misurarsi sui nuovi problemi, promuovere in ogni campo le prospettive delle nuove generazioni. Ma tutto questo, secondo me, diventa più agevole traendo forte senso da antiche radici che, oltrepassano largamente le vicende degli ultimi decenni, i DS, la Margherita, il PC, la DC, il “compromesso storico”.
Mettiamo tutto questo in un percorso più ampio, più lungo. La nostra narrazione deve prendere a riferimento questioni più essenziali, radici più essenziali. Radici di emancipazione, di riscatto, di auto-organizzazione, di solidarietà, di autonomia, che furono la premessa vivente delle grandi formazioni politiche e popolari all’affacciarsi del secolo scorso.
Allora si formò l’idea che, prendendo le parti ed il punto di vista di chi lavora e produce, di chi è più debole e subordinato, si potesse costruire una società migliore per tutti. E davanti alle condizioni nuove del nuovo secolo, questa resta la nostra profonda ispirazione, la nostra carta d’identità e, al tempo stesso, questo resta il nostro fondamentale problema nei tempi nuovi, nei tempi che si affacciano: darci un nuovo radicamento nei grandi ceti popolari.
All’uscita dal Congresso dovremo avere le idee più chiare su tutto questo, per poterci rivolgere con un profilo netto all’Italia. Se vogliamo parlare dell’Italia noi dobbiamo farlo nel cuore di questa crisi; non ne usciremo come ci siamo entrati, né per l’economia, né per la politica.
La gestione della destra è fatta di minimizzazione, di cabotaggio.
Ci prepara stagnazione economica, ci prepara crisi della finanza pubblica. Ci prepara una stagione ulteriore di condoni e quindi la previsione di ulteriori aumenti della pressione fiscale. Ci prepara l’abbandono sostanziale delle situazioni sociali più deboli.
Noi chiediamo anche da qui e con forza al Governo di assumere una maggiore responsabilità, di non edulcorare i dati della crisi.
Chiediamo al Governo di smetterla con le piccole pillole comunicative, chiediamo una gestione più aggressiva, una vera manovra anti-crisi che metta soldi veri e nuovi dove vanni messi: nei redditi di chi, a qualsiasi titolo, perde il posto di lavoro; nella liquidità delle piccole imprese ed in investimenti immediati che solo gli Enti Locali sono in condizione di fare.
Stimoli all’economia reale, preservazione delle nostre capacità produttive, impresa, lavoro; misure temporanee, ma effettive, consistenti! La crisi non è psicologica e non è alle nostre spalle. Purtroppo, gli effetti economici e sociali della crisi ce li abbiamo ancora davanti. E, soprattutto – ecco il punto di cui il Governo non vuole occuparsi – abbiamo davanti il rischio di una caduta di rango del nostro Paese, il rischio che vengono azzoppati, bloccati, contraddetti i processi di innovazione e di investimento e che ci troviamo all’uscita dalla crisi in una condizione più debole della nostra economia nel quadro internazionale.
In ogni caso, noi dobbiamo affiancare i protagonisti della crisi. Nel viaggio che farò, in occasione del Congresso, ovunque sarà possibile, cercherò di avere un incontro con i lavoratori, con gli imprenditori che sono sottoposti ai processi di crisi.
E invito tutti a fare altrettanto. Bisogna che il nostro partito ci sia. Poi si vede come fare ma, intanto, bisogna esserci, nei luoghi di questa crisi. Questa crisi scatenata dalla finanza ha origini in realtà, lo sappiamo, in politiche economiche squilibrate, fondamentalmente poggiate sull’idea che la ricchezza smisurata di pochi possa fare da locomotiva per tutti. E adesso, dagli Stati Uniti alla Cina, tutti sono costretti a cercare un nuovo equilibrio tra economia e società, mediato dalla politica; a cercare uno sviluppo più equilibrato dei loro mercati interni, a sviluppare un’attenzione più marcata di beni collettivi, a quelli ambientali, per esempio. E a tornare ai fatti fondamentali della produzione e del lavoro.
E allora, se è così, i principi di equilibrio sociale e di eguaglianza possono pretendere, oggi, più di ieri, di essere portatori di una razionalità economica. Si può affermare l’idea che nessun cittadino, nessun ceto sociale, nessun paese può star bene da solo se anche gli altri non trovano la strada per stare un pò meglio.
E, mi rendo conto, una prospettiva controversa, aperta ovunque – anche da noi – ad altri sbocchi di tipo protezionistico, difensivo, regressivo, ma pur tuttavia è un terreno nuovo, un banco di prova. Anche qui in Italia. Come in una crisi, che non sarà breve, suscitare un progetto, uno sbocco possibile, un orizzonte di cambiamento che impedisca una regressione strutturale del nostro sistema, sul piano socio-economico e anche sul piano culturale, ideale? Questo è un rischio che c’è, e che può portare a sbocchi politici che oggi non possiamo prevedere. Noi dobbiamo dunque uscire da questo congresso con un’idea positiva del nostro paese, un’idea che abbia concretezza. Non tocca ad un congresso fare un programma di governo, ma l’ispirazione essenziale di un programma sì, questo dobbiamo definirlo, in questo congresso.
Io comincio da qui. Tutto quello che si può fare per l’Italia viene disperso se non si aggrediscono le due questioni che ci caratterizzano tra i paesi maturi e che imprigionano le nostre energie. Le due questioni sono: primo, la più cattiva distribuzione della ricchezza; secondo, la minore mobilità sociale.
La ricchezza mal distribuita fra ceti e mal distribuita fra territori si accompagna da tempo ad un netto impoverimento, che dura da anni, dei ceti medi, dei ceti medio-bassi e bassi. Ad una riduzione sul pil dei redditi da lavoro, redditi spesso sempre più occasionali e precari. Fenomeni che sono ovunque nei paesi maturi, ma qui più accentuati. E su questi ceti indeboliti, su queste famiglie indebolite, si scaricano tutte le novità: la precarietà, il disordine di un’immigrazione che preme sul più basso decile di reddito, affolla quel decile di reddito, la non autosufficienza, che è in grado di mettere in ginocchio anche una famiglia a reddito medio, e tante altre cose ancora. Se non si coglie tutto questo, credo non si colga la sostanza, di cio che sta avvenendo nel paese e non si capisce neanche che cosa sia e cosa debba fare un partito popolare. Allo stesso tempo, i riflessi difensivi che scattano nelle fasi critiche aggravano i tradizionali assetti corporativi, relazionali, clientelari ai quali siamo da tanto tempo abituati nel nostro sistema. Blocchi che imprigionano enormi energie economiche e che imprigionano le prospettive delle nuove generazioni; sono blocchi che nella crisi si stringono ancora di più.
Su questi due punti fondamentali ci vogliono riforme, riforme vere che noi dobbiamo avanzare con una proposta che si faccia capire. A proposito dei redditi: se noi, nel futuro, vogliamo aprire – come vogliamo, per i principi che ci caratterizzano – una nuova fase universalistica dei sistemi di welfare, dove in via di principio non c’è povero nè ricco, allora innanzitutto dobbiamo qualificare, rendere sostenibile l’universalismo che c’è già.
Ad esempio qualificare e rendere sostenibile il sistema sanitario, imponendo le migliori pratica. Solo noi abbiamo la cultura di governo per fare davvero questa operazione, gli altri non ce l’hanno. E intanto che difendiamo l’universalismo che c’è, e che la qualifichiamo, dobbiamo introdurre nuovi universalismi, portare l’universalismo dove non c’è ancora. Il primo punto riguarda il dualismo del mercato del lavoro, che va assolutamente superato, aprendo, in particolare, dei processi univoci, ben definiti, di inserimento nel lavoro e di stabilità del lavoro.
Voglio ricordare a me stesso e a voi che i giovani che, a qualsiasi titolo, fanno la prima esperienza di lavoro – questo ci risulta anche dalle ultime elezioni – sono quelli che più si allontanano da noi. È ora di dire a loro qualcosa che si capisca. Di proposte per il superamento di questo dualismo ce ne sono diverse sul tavolo, bisogna discutere, stringere e promuoverle.
Bisogna occuparsi dei redditi di ultima istanza e bloccare processi di impoverimento estremo delle famiglie. Bisogna occuparsi di salario minimo, anche per vie contrattuali. Bisogna sollecitare davvero una contrattazione che distribuisca un pò meglio i guadagni di produttività. Bisogna favorire l’innalzamento flessibile e volontario dell’età pensionistica, ma al contempo aprire una riflessione più di fondo, perché quando il 54% delle nuove pensioni Inps 2007 è sotto i 750 euro e la tendenza è a peggiorare, vuol dire che nella prospettiva stiamo mandando un sacco di gente sotto la soglia di povertà.
Questo non è accettabile e dobbiamo pensarci da subito e chiederci se davvero le “gambe” del sistema previdenziale, che abbiamo fin qui introdotto, non vadano arricchite, rafforzate, ristrutturate, aggiungendo anche uno zoccolo universalistico fondato sulla fiscalità generale a fronte di un calo significativo dei contributi.
Così come non possiamo lasciare senza novità temi cruciali, come quelli della non autosufficienza e quelli delle famiglie numerose. Queste riforme possono reggersi, per una parte sostanziale, sul riequilibrio dei rapporti di convenienza interna e sulle risorse pubbliche già impegnate. Ma certamente non può essere rimosso, in un paese come il nostro, il tema della fedeltà fiscale, di una più equa distribuzione del carico fiscale, di una riformulazione della fiscalità d’impresa in modo più favorevole all’occupazione e soprattutto a meccanismi che inducano una fisiologia di emersione, di trasparenza, di tracciabilità nella formazione dei redditi e delle basi imponibili.
E sul tema della mobilità sociale è importante premettere un concetto: la liberalizzazione è il contrario del liberismo. Liberalizzazione è dare regole al mercato, evitando il dominio dell’uno sull’altro; il liberismo è il mercato che si dà le regole da sé e anzi pretende anche di imporle alla società, alla sanità, al sociale e così via. Dobbiamo attaccare con nettezza assetti corporativi e relazionali per l’accesso alle attività economiche, alle professioni e alla ricerca. Dobbiamo farlo senza paura, prendendo il punto di vista della nuova generazione e mettendolo dentro come un motore della nostra politica.
E così dobbiamo cambiare ottica, non possiamo parlare di casa solo a proposito di proprietà della casa, c’è bisogno di parlare anche di affitto, altrimenti nel paese non può esserci mobilità. E dobbiamo occuparci di più della progressione del lavoro delle donne, ampiamente discriminate, qualificare ed accorciare i percorsi di studio e cosi via. Voi lo sapete, propongo sempre di collegare il tema della mobilità sociale al tema della cittadinanza, della riscossa civica, di un nuovo civismo nel nostro paese. Responsabilità, merito, diritti e doveri, rispetto dei cittadini e in particolare del più debole, dell’escluso.
Qui ci sono tantissimi temi. Noi non possiamo non occuparci senza incertezze del tema della sicurezza, non nella prospettiva sicuritaria-repressivo-regressiva della destra, ma nella forma rigorosa del diritto del cittadino alla sicurezza, a cominciare dal cittadino più debole, a cominciare dalla liberazione del cittadino e dell’impresa da tutte le mafie.
Dobbiamo assumere la questione dei diritti civili, essere in prima linea nella tutela del consumatore e portare questo famoso merito dal cielo alla terra; il che vuol dire accettare meccanismi di valutazione esterna in ogni campo, altrimenti parliamo di merito assolutamente in astratto. E dobbiamo anche essere in prima linea nel pretendere l’efficacia delle sanzioni, a cominciare dalla giustizia civile.
Sapete in questa crisi quanti artigiani si sentono dire dal cliente: guarda i soldi ti sono dovuti ma io non te li dò, rivolgiti pure all’avvocato o a chi vuoi, tanto ci vogliono dieci anni? Non è una cosa tollerabile! E cittadinanza vuol dire tante altre cose: promuovere la cittadinanza digitale, per esempio, con i nostri Enti Locali, una battaglia di frontiera bellissima. Vorrei mettere qui, sotto questo grande titolo civico l’esigenza di cui dobbiamo caricarci, di riportare al centro della discussione la dignità e la fatica della condizione femminile, oggi insultata dai devastanti stereotipi e berlusconismi.
Dobbiamo pretendere rispetto, rispetto per questa condizione. E dobbiamo mettere sotto il titolo della cittadinanza, temi delicatissimi, come quello dell’immigrazione. Noi siamo perché l’immigrato regolare acquisisca i diritti e i doveri della cittadinanza e accompagniamo quel processo secondo principi di solidarietà, di umanità che deve prevalere comunque sopra ogni altra cosa. Ma non dimentichiamo mai che se c’è disordine e approssimazione nella regolazione dei flussi migratori quel disordine e quella approssimazione si scaricano sulla parte più debole della popolazione. Se ce ne dimentichiamo, non potremo lamentarci del diffondersi di idee regressive in chi può pensare, a ragione o torto, che si possa fare un mondo perfetto a spese sue. C’è un impatto da distribuire meglio, più equamente, tra chi fruisce più direttamente dell’immigrazione e chi può averne, a torto o ragione, paura. A cominciare dalla pressione sui servizi pubblici.
E, infine e non per ultimo, metto sotto questo tema della riscossa civica – come dicevo - il tema della sobrietà della politica, a cominciare dalle muraglie cinesi fra interesse pubblico e privato. E a cominciare dai costi della politica. Qui non c’è bisogno di qualunquismo, di populismo e anti-politica. C’è bisogno di procedere a parametrarci con i costi medi di ogni funzione della politica dei principali Paesi europei. Una misura molto semplice, non qualunquista, che credo potrebbe avere una buona efficacia.
Cari amici e compagni, dobbiamo essere un partito che dice le stesse cose al nord ed al sud. È diventato molto difficile, ma come direbbe Vasco siamo solo noi che possiamo farlo. Siamo solo noi.
Il Nord, oltre che un luogo geografico, è una metafora dei ceti produttivi e più esposti alle dinamiche globali. Non c’è possibilità alcuna di rafforzare il nostro radicamento al nord senza correggere verso ceti popolari, ceti produttivi, lavoro, impresa l’asse generale delle nostre politiche. Non c’è alcuna possibilità fuori da questo. E questo, tuttavia, deve svolgersi in una reciprocità con la questione meridionale.
Per esperienza posso dire una cosa: se fai delle riforme parli che si rivolgono alle esigenze di modernizzazione del Paese rispondi al nervosismo, all’insofferenza del Nord; ma metti anche in moto le dinamiche nelle aree meno sviluppate del Paese. E questo è ovvio, perchè là sono le energie potenziali. Allora, per esempio, se faccio liberalizzazioni, funzionano più al sud che al nord, se supero intermediazioni, come per esempio nelle incentivazioni della pubblica amministrazione, piaccio al nord, ma faccio un enorme piacere al sud.
Cosi se mi occupo di sicurezza, di funzionamento della giustizia, allora una stagione di riforme di modernizzazione che liberi energie potenziali al sud e parli al nord del Paese è possibile, si può fare.
E naturalmente, costruendo questa reciprocità, non può essere oscurata la parola “Mezzogiorno”, che oggi viene devastata, rimossa, male interpretata. Dobbiamo pronunciare questa parola con proposte nuove, che siano impugnate anche da una nuova generazione di protagonisti.
Gli investimenti al sud vanno garantiti, non vanno rubati, rapinati e dispersi. Ma si possono fare in altro modo, come avevamo cercato di impostare: meccanismi automatici, non intermediati, per sostenere gli investimenti di impresa. Meccanismi premiali che premiano chi raggiunge certi standard di servizi, sto parlando di rifiuti, sto parlando di acqua, sto parlando di istruzione, sto parlando di anziani. Piani nazionali sui beni collettivi: energia, acqua, ambiente.
Questa ricerca di reciprocità, in un partito che vuole essere un partito nazionale ma federale, la si gioca su un buon assetto del federalismo. Non vado al concreto, è un tema complesso di cui non voglio parlare qui. Qui sto alla politica. Dico che, essendo un partito nazionale, noi dobbiamo però operare una forte ripresa sul piano politico e culturale della grande tradizione autonomista che sta nelle nostre radici e di cui troppo spesso ci dimentichiamo.
Un autonomismo che è il nostro e non è il loro! E non dobbiamo accettare lezioni da loro. Perché, alla fine, gli asili nido e le aree artigianali li abbiamo inventati noi, bisogna sempre ricordarselo! Non ce ne ricordiamo abbastanza. Non possiamo essere un partito delle autonomie dei territori, come ci diciamo spesso, se ci limitiamo a fare proposte normative. Dobbiamo far proposte normative, ma dobbiamo approfondire e rilanciare la nostra cultura autonomistica nel merito, nei contenuti e dobbiamo darci un’organizzazione di partito coerente con tutto questo. Ci vogliono tutte e tre queste cose.
Credo molto all’energia che può venirci dalla crescita della soggettività politica dei nostri amministratori. Credo alle amministrazioni come leva fondamentale di selezione delle classi dirigenti e perché non manchi un saluto a tutti i nostri amministratori che sono sul fronte, voglio rivolgermi, per tutti loro, ai nostri amministratori aquilani che non lasceremo soli in un impegno terribilmente difficile e con un Governo che ha sbagliato dal primo giorno il rapporto con loro. Altro che il G8!
Spero di avere possibilità di sviluppare in altre sedi, non posso farlo qui, qualche altro cardine di una politica riformista. Ci sono un paio di punti che non voglio banalizzare in tre righe, sui quali voglio organizzare due appuntamenti specifici: il primo riguarda il salto di rango di tutta la filiera della conoscenza, come fare del nostro partito la punta avanzata che garantisca un passaggio dell’Italia alla società della conoscenza. E non vado nel dettaglio, su questo faremo un’iniziativa specifica.
Il secondo punto, che ugualmente non voglio banalizzare, è il grande tema delle politiche produttive e industriali nel loro collegamento con la conoscenza e nel loro collegamento col grande tema ambientale, che è la nuova grande frontiera di innovazione industriale, di qualificazione dei consumi e di miglioramento della qualità della vita.
Quindi rimando i temi ai due appuntamenti che organizzeremo.
Sulla piccola impresa però, parlando di innovazione, di politiche industriali, vorrei dire una parola. Noi dobbiamo veramente fare qualcosa di visibile, di concreto su un paio di punti. Uno è alleggerire l’impresa dal peso della rendita finanziaria e immobiliare, l’altro è cercare nuovi sistemi di relazione e una partecipazione più attiva, più vicina, dei lavoratori alla vita dell’impresa.
E bisogna anche che noi superiamo davvero una barriera mentale che c’è tra noi e la piccola impresa. Bisogna che ci diciamo, molto semplicemente, che un imprenditore privato, cooperativo, artigiano, commerciante che sta nelle regole fa pienamente parte del nostro progetto, è un protagonista del nostro progetto! Mi ha veramente colpito, ( sono figlio di artigiani anch’io),un mese fa, la vicenda di quell’artigiano di Treviso, Walter Ongaro, che angosciato dalla crisi, probabilmente per la preoccupazione di dover licenziare delle persone con cui aveva lavorato per decenni, si è tolto la vita. Voglio inchinarmi a lui come a tutti i morti sul lavoro.
Vorrei infine che fosse convocata dal nostro partito una grande conferenza sulla riforma della Pubblica Amministrazione, un tema su cui noi dobbiamo superare ritardi nella nostra cultura di governo.
C’è un punto di cui dobbiamo essere consapevoli: noi abbiamo bisogno del buon nome della Pubblica Amministrazione per le nostre politiche che richiedono spesso l’intermediazione della Pubblica Amministrazione, l’urbanistica, la sanità universalistica e così via. Gli altri, per le loro politiche, hanno invece interesse al cattivo nome della Pubblica Amministrazione, per le loro politiche deregolative. E, quindi, loro non ci risolveranno il problema! Infatti, ogni loro riforma non va oltre ad un richiamo all’ordine e c’è sempre dentro un insulto, un insulto che noi rifiutiamo, rigettiamo.
Riformare non è questo. Ma dobbiamo saperlo anche noi che cosa vuol dire riformare la Pubblica Amministrazione. Vuol dire fare quello che si fa normalmente dentro le politiche industriali e cioè avere meccanismi permanenti per adeguare la missione in ogni area dell’Amministrazione, avere strumenti che rendano praticabili le conversioni organizzative, per adeguare via via la Pubblica Amministrazione al mondo che cambia.
E tocca a noi tutto questo, gli altri non lo faranno e scaricheranno sempre politicamente su di noi l’inefficienza o il cattivo nome della Pubblica Amministrazione.
Naturalmente, avanzare una piattaforma significa aprire il dialogo con le organizzazioni sociali. Chi mi ha visto all’opera negli anni lo sa; io credo profondamente ai rapporti con i corpi intermedi e sono quasi un cultore, se così si può dire, della sussidiarietà, e sento di dover dire anche qui, ad esempio, che il mondo del lavoro in un passaggio così difficile ha bisogno che il sindacato ritrovi la strada della convergenza e dell’unità.
Ma so anche qual è la responsabilità nostra, di un partito politico; una responsabilità che non abbiamo sempre esercitato in questi venti mesi, diciamocelo. Tocca alla politica pronunciare un’idea di società. Le organizzazioni sociali, i corpi intermedi vogliono fare il loro mestiere e gradiscono che tu faccia il tuo, discutendo con loro, certo, ma sapendo anche dove possono trovarti, in modo che ciascuno possa praticare la propria autonomia. Diamoci dunque il progetto, diamoci un’idea di società. Ci risulterà più facile anche allargare il confronto con tutte le forze sociali.
E proprio qui, parlando di riforme, di contenuti, di innovazione, vorrei mettere – mi costa anche un pò per il carattere che ho – l’unica notazione personale di questo discorso. Vedo bene che da molte parti si cerca di mettere una patina di grigio sulla mia candidatura. Ora voglio dire semplicemente che, da quando cominciai, (molto giovane, girando a far politica per dei paesini di montagna) sono stato poi in tantissime responsabilità, e mi sono sempre preso la briga di cambiare. Non ho mai lasciato le cose come le ho trovate. Si può controllare.
E non le ho mai lasciate come l’ho trovate per due semplici motivi, di cui uno addirittura banalissimo: ho sempre pensato che la terra gira tutti i giorni e tutti i giorni devi cambiar qualcosa. E il secondo motivo è che questo mondo qua, questa società così com’è non mi piace del tutto. E, quindi, questa famosa innovazione, innovazione, innovazione… vorrei capire: ne parliamo a chiacchiere! Allora io non vorrei partecipare. Se ne parliamo a fatti, al contrario, io credo di aver qualcosa da dire.
Ma veniamo a cose più rilevanti che non i sassolini nelle scarpe: i nostri compiti politici; poi parlerò del partito e avremo concluso questa serata. Sui compiti politici, voglio dire prima di tutto che immagino le prospettive dell’Italia nello sviluppo di una politica estera di pace, di cooperazione, di corresponsabilità multilaterali, di rafforzamento e di riforma delle istituzioni internazionali, di una vera integrazione europea, di una forte soggettività dell’Europa, nella costruzione di istituti e regole della globalizzazione, di un suo protagonismo nella politica internazionale a cominciare dalle aree che sono a noi più vicine – i Balcani, il Medio Oriente, l’Iran insanguinato e preda di un nazionalismo aggressivo che vuole imporsi col pugno di ferro. Una politica estera secondo l’asse fondamentale di quella che è stata la politica estera dei governi di centrosinistra, che è riuscita a ridare ruolo, funzione, dignità alla nostra presenza nel mondo. Funzione e dignità che oggi sono dispersi in una politica estera da rotocalco e su questo; (siccome so che sono in sala dei rappresentanti del PD degli italiani all’estero, mandiamogli un applauso di incoraggiamento!)
Il ciclo politico mondiale è segnato ancora dall’evoluzione della crisi, dalle nuove dinamiche, della globalizzazione. In tutti questi anni la destra si è mostrata spesso capace di cogliere i frutti politici di queste dinamiche; di coglierne i frutti politici, sia dal lato della deregolazione, del liberilismo, sia dal lato delle paure che la de regolazione suscitava. Quindi la destra è riuscita a fare un pò tutte le parti in commedia.
Adesso in molte parti del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, le forze progressiste si mostrano capaci di indicare una prospettiva nuova. In Europa le forze progressiste di sinistra, nella prevalente tradizione socialdemocratica, appaiono ferme sulle gambe e sono da tempo colpite dalla crisi del compromesso sociale, che è stato il luogo politico per eccellenza della costruzione, formazione e rafforzamento di queste socialdemocrazie. Un compromesso sociale che è risultato affaticato dai suoi limiti interni, affaticato da orizzonti esclusivamente nazionali – questo è stato un limite enorme – ma scosso, però, anche dalla frusta della globalizzazione che ci ha portato in casa degli effetti dumping sui salari, sui diritti, sulla fiscalità.
E queste forze non sono apparse in grado di indicare una prospettiva per l’Europa, a volte mostrando staticità, ripiegamenti e anche un qualche smarrimento dell’autonomia politica e culturale, come se bastasse a noi forze progressiste applicare più benevolmente le ricette degli altri. D’altra parte, la destra, anche nelle recenti elezioni europee, ha accumulato consenso, ma in modo spesso frammentato e imprigionato in formule difensive, addirittura regressive.
A me pare che da tutto questo, in sostanza, derivi una perdita d’orizzonte delle politiche europee come tratto fondamentale di questa fase, cioè un’assenza di direzione di marcia. Come dicevo, c’è un aggiustamento incombente degli equilibri economici e sociali fondamentali nelle diverse aree del mondo. E questo lascia aperta la strada, durante e dopo la crisi, a sbocchi politici di diverso segno. Lo ripeto, non c’è dubbio che l’affacciarsi, a livello mondo, di nuove esigenze di regolazione e di un ruolo della politica nel determinare compatibilità sociali e ambientali della crescita offre il terreno per una fase nuova di elaborazione di iniziative delle forze democratiche e di sinistra europee. Una possibile riscossa alla quale i democratici italiani devono contribuire, a partire dalla nostra situazione nazionale.
Nella dimensione italiana, la fase che si è aperta negli anni Ottanta ha determinato una riorganizzazione della politica, prima segnata da condizionamenti ormai estenuati della logica dei blocchi, poi dal vuoto lasciato dalla caduta del muro e dall’impronta di anti-politica con cui quel vuoto si è andato via-via chiudendo.
Noi abbiamo avuto una fase di consolidamento bipolare, che bisogna riaffermare, ma che ritengo stabilizzata nella sua essenzialità e, tuttavia, irrisolta nella sua forma. Noi abbiamo vissuto un periodo nel quale Berlusconi, sostanzialmente, ha riorganizzato e reso utilizzabile per il governo del Paese tutto il campo del Centrodestra. Questa è stata la grande novità.
Una fase nella quale il Centrosinistra ha conteso il governo del Paese, non senza risultati rilevanti, a cominciare dal grande appuntamento dell’Eur, ma senza trovare ancora una vera organizzazione del campo, nonostante la grande intuizione dell’Ulivo di Romano Prodi, che voglio salutare da qui.
Nonostante la grande intuizione dell’Ulivo di Prodi – dicevo - e nonostante la nascita del Partito Democratico. Nessuno, peraltro, è riuscito in questi anni a sfondare davvero elettoralmente nel campo altrui; incursioni sì, sfondamenti no. Nel nostro Paese esistono dunque le potenzialità del ricambio, ma c’è ancora la presa di una leadership conservatrice con dei tratti fortemente ideologici.
Questa leadership mostra con evidenza di esser sempre tentata ogni giorno di mettere il consenso davanti alle regole, di utilizzare il Governo per accumulare consenso, piuttosto che utilizzare il consenso per conseguire risultati veri, di governo, misurabili, utili alla riscossa del Paese. E, quindi, si rendono via via più evidenti sia i rischi di deformazione della nostra democrazia in senso populistico, sia le contraddizioni che la leadership conservatrice apre nei suoi rapporti col Paese. Non possiamo sottovalutare che le ultime elezioni hanno comunque segnato una battuta d’arresto della spinta propulsiva di Berlusconi.
Quindi bisogna determinare con maggiore chiarezza di quanto non sia avvenuto fin qui il compito politico del Partito Democratico. Per me, questo compito si presenta con tre aspetti intimamente connessi: profilare meglio la nostra identità, il nostro progetto; tenere aperto il cantiere del partito; contribuire con efficacia all’organizzazione del campo del Centrosinistra. Sono convinto che un nostro profilo più leggibile, un’idea più chiara di partito potranno aiutarci, nei mesi successivi al Congresso e sulla base di vincoli programmatici, nella possibilità di riaprire un percorso di convergenza con formazioni ambientaliste di sinistra e civiche, che non hanno fino ad oggi partecipato alla costruzione del Partito Democratico.
L’originaria ispirazione dell’Ulivo non può essere rimossa, nè vivere solo in una chiave evocativa, perchè non è infatti esaurita la questione sostanziale dell’incontro fra tutte le culture, le esperienze politiche e progressiste ancora oggi divise. E, tuttavia, questo non può essere un compito esaustivo; si deve accompagnare all’esigenza di riconoscere l’autonomia e la responsabilità di altre forze del Centrosinistra e dell’opposizione e di tracciare i primi passi politici per una riorganizzazione del campo dell’alternativa. Da soli non si può fare nulla.
La vocazione maggioritaria del PD non può lasciare immaginare un ruolo esclusivo, va interpretata invece come capacità di presentare un progetto aggregante di governo del Paese e come responsabilità primaria nella costruzione di alleanze per una prospettiva politica di alternativa. Credo che il quadro di alleanze non sarà predefinito dal nostro congresso; deriverà da un percorso politico e programmatico e il primo grande ambito nel quale delimitare e proporre il confronto è quello della democrazia: istituzioni, regole, meccanismi elettorali. La curvatura populista, quando non plebiscitaria, con cui Berlusconi sta caratterizzando la Destra italiana, dov’è che prende consistenza? Prende consistenza, oltre che in meccanismi impari di comunicazione, in un’ibridazione di fatto fra modello presidenziale e modello parlamentare, una sorta di continuum fra Governo e Parlamento che la legge elettorale attuale ha reso agevole.
Qui c’è una pericolosa deriva, che va interrotta, sia con una moderna legislazione antitrust nel campo della comunicazione, sia con una coerente riforma istituzionale ed elettorale. Ora, per un paese a democrazia matura, la scelta non può che essere fra struttura parlamentare e struttura presidenziale, ciascuna con i suoi contrappesi.
Tenendo conto delle caratteristiche nostre, del sistema politico italiano, della nostra tradizione, noi scegliamo un modello parlamentare rafforzato e razionalizzato. E questo comporta, secondo proposte già avanzate in sedi culturali, in sedi parlamentari, un irrobustimento dei poteri dell’Esecutivo e del Premier e un irrobustimento delle forme di controllo del Parlamento, anche rivisitando i regolamenti. E la legge elettorale dovrà essere coerente con la forma di governo, dovrà evitare quindi ogni ritorno al proporzionalismo puro e perseguire un buon equilibrio fra rappresentanza, stabilità, governabilità, muovendosi nell’ambito di un bipolarismo nel quale l’elettore pretende di avere visibilità del quadro di alleanze e della loro stabilità. Questo equilibrio si può ottenere attraverso sistemi misti, ma la chiave politica è questa: la misura di questo equilibrio dovrà essere ricercato dialogando con tutte le forze politiche e parlamentari interessate a opporsi ai rischi di deformazione della democrazia, insiti nel modello della destra.
Quello che è essenziale è la valorizzazione massima del rapporto fra eletti ed elettori, un rapporto che è devastato dall’attuale legge elettorale e che può essere ristabilito riaffermandolo in particolare attraverso i collegi territoriali. Siamo interessati a ricercare per le vie parlamentari un percorso di riforma delle istituzioni, della legge elettorale, dei regolamenti e contribuiremo a questo percorso promuovendo un confronto con le forze di opposizione dentro e fuori il Parlamento.
E a questo grande ambito della democrazia noi dobbiamo affiancare anche la ricerca di una convergenza politica e programmatica sui temi economici e sociali, perché l’esigenza di proporre soluzioni sulle concrete condizioni di vita dei cittadini è percepita ampiamente oggi, quindi il PD promuove la centralità di questi temi, e chiede a tutte le forze d’opposizione un confronto e una iniziativa comuni, a partire dalle questioni cruciali della crisi. E qui c’è un punto importante. Credo che il PD debba esprimere la cifra della sua opposizione alla Destra, saldando la questione democratica, la questione economica e sociale. Perché privilegiando nella battaglia di opposizione un solo aspetto della crisi italiana, si rischia di assumere un ruolo minoritario o di denuncia impotente.
L’opposizione che serve è quella che, caratterizzandosi con nettezza e senza ambiguità, lascia intravvedere la costruzione progressiva di una nuova prospettiva di governo, sia dal lato dei contenuti, sia dal lato della costruzione di uno schieramento alternativo e già nelle prossime elezioni regionali si dovranno sperimentare su basi programmatiche larghi schieramenti di centrosinistra, alleanze democratiche di progresso alternative alla destra.
Le cose che ho detto fin qui sono una linea, non sono naturalmente la Bibbia. Io intendo mettere le cose che ho detto ed altre in un circuito che consenta di raccogliere lungo tutto il percorso congressuale i contributi, gli affinamenti, gli arricchimenti sia nel percorso interno al partito, sia nei circuiti della rete. Perché su un asse coerente questi contenuti, si devono migliorare, (credo che abbiamo il modo, in questa lunga vicenda derivata da uno statuto un pò farraginoso e barocco, di arrivare ad una partecipazione attiva di tantissima gente.
Ci organizzeremo per ricevere contributi anche sui contenuti. Così come faremo anche per la parte che riguarda il tema del partito.
La questione che ci si è posta nei mesi scorsi, secondo me, non è se essere un partito vecchio o un partito nuovo, ma se essere o no un partito. Se essere o no un’associazione volontaria, che avendo una ragione sociale, si dà un’organizzazione, un radicamento, dei luoghi di discussione politica effettiva, di partecipazione efficace degli aderenti, nonché una disciplina liberamente accettata e condivisa. Tutto questo non può essere risolto semplicemente ovviandolo con meccanismi di leadership mediatica o comunicativa, nè con meccanismi che garantiscano il semplice assorbimento della società così come essa si presenta.
(Quasi fossimo un’idrovora e l’idrovora poi gira nei due sensi, secondo come la registri: o assorbi tu la società, o ti assorbe lei. Ma non fa molta differenza.)
Il mancato chiarimento di questi punti fondamentali ha fortemente indebolito il nostro progetto, disperdendo energie, incentivando frammentazioni e, diciamolo pure, provocando delusione e ripiegamento sia di chi immaginava delle forme di condivisione, di militanza più tradizionali, sia di chi si attendeva una forte innovazione che, comunque, garantisse una partecipazione politica.
Quindi, dico che è urgente correggere la costituzione formale e materiale del Partito Democratico; è urgente innanzitutto prendendo sul serio il nome che ci siamo dati. Propongo concretamente e precisamente queste essenziali direzioni di cambiamento: il Partito Democratico è un partito di iscritti e di elettori. La sovranità appartiene agli iscritti che, sulla base di regole, la delegano in determinate occasioni agli elettori.
Quindi agli iscritti è riconosciuta una serie di diritti fondamentali, anche con strumenti incisivi come il referendum, e il radicamento organizzativo sul territorio, nei luoghi di studio, nei luoghi di lavoro è la condizione effettiva di un’apertura efficace agli elettori.
Credo di dover ribadire – mi sono attribuite sciocchezze a questo proposito – il valore democratico delle primarie fra gli elettori, per le scelte dei candidati alle cariche monocratiche: sindaci, presidenti di provincia e regione e presidente del consiglio. E aggiungo che le primarie non possono essere semplicemente una procedura elettorale, ma un’occasione per costruire forme anche parziali di partecipazione, di coinvolgimento, di relazione organizzata fra partito ed elettori. Aggiungo anche che le primarie dovranno svolgersi nell’ambito delle coalizioni di cui il PD fa parte, perchè la scelta delle candidature rappresentative del PD nelle primarie deve essere determinata con metodo democratico dagli iscritti e dagli organismi del PD. Il Partito Democratico è un partito nazionale organizzato su basi federali, ma bisogna capire che cosa vuol dire. Ha radici nel territorio, seleziona lì le sue classi dirigenti, attribuisce e garantisce a scala territoriale le fondamentali risorse. Il finanziamento derivato da rimborsi elettorali per elezioni regionali, del tesseramento, delle feste, contributi dagli amministratori dovranno essere destinate ai circoli e alle organizzazioni provinciali e regionali. E una parte del finanziamento elettorale nazionale europeo dovrà essere destinato ogni anno a progetti di radicamento del partito nella società, laddove siamo più deboli.
Aggiungo anche che la rappresentanza politica dovrà tenere conto, secondo me, stabilmente della dimensione territoriale. Quindi, nel rispetto del pluralismo congressuale, ogni organo dirigente dal livello provinciale a quello nazionale per la metà deve essere formato da rappresentanti designati dai livelli sottostanti.
E gli organi dirigenti dovranno avere una dimensione numerica tale da consentire un’effettiva discussione politica e delle deliberazioni consapevoli, perché quando si è in troppi nessuno decide nulla e poi si decide in tre. Questo bisogna dirlo, e correggerlo!
Inoltre, noi dobbiamo fissare che, qualunque sia il sistema elettorale per il parlamento nazionale, la grande maggioranza delle candidate e dei candidati dovrà essere determinata dai livelli territoriali con metodo democratico. Se facciamo così, allora io credo davvero che lo scorrimento fra esperienze territoriali e nazionali sarà il meccanismo fisiologico con cui procedere alla selezione delle classi dirigenti e al loro rinnovamento anche generazionale. Altrimenti, non ci si riesce, si fa solo cooptazione. Questa è la mia profonda convinzione.
Il Partito Democratico, per definizione, è pluralista. Il pluralismo deriva dai confronti congressuali. Il partito persegue la parità di genere. Il pluralismo si esercita in forme tali da garantire l’espressione univoca delle posizioni del partito. E ciò significa, fatta ovviamente salva la più larga libertà di espressione e la piena partecipazione al dibattito interno al partito, ai gruppi consiliari e parlamentari, l’accettazione del principio di maggioranza e del vincolo alla posizione comune nelle sedi istituzionali.
Le eccezioni a questo principio, perché sicuramente ci sono delle eccezioni, devono essere espressamente previste da un organismo di garanzia di rango statutario.
Credo che il partito sia anche un’associazione culturale, che promuove cultura politica, che si alimenta nella ricerca e nel dibattito critico e che vive in una osmosi col vasto, articolato mondo dell’intellettualità democratica. Quindi il partito deve produrre una lettura critica della società, produrre formazione, vivere un rapporto attivo con le forze intellettuali. Non possiamo spendere tutti i soldi che abbiamo in comunicazione; bisogna che li spendiamo un pò anche in analisi, in ricerca, in aggiornamento culturale.
Abbiamo risorse enormi, organizzate in associazioni e fondazioni con cui avere un rapporto anche stabile. E dico anche che il partito è anche una comunità di persone, di donne, di uomini e deve produrre una socializzazione a modo nostro. Quindi, per me, le iniziative a dimensione popolare, le feste, sono una parte costitutiva dell’attività di partito.
Non vedo per quale deviazione mentale la promozione di nuovi strumenti di comunicazione da incoraggiare senza titubanze dovrebbe contraddire questo assunto. Non vedo perché.
Il PD si deve dare forme organizzate, flessibili, temporanee, permanenti, associative per garantire rapporti con le organizzazioni sociali, del lavoro, dell’impresa, dei consumatori, del volontariato e questo deve avvenire ad ogni livello dell’organizzazione.
E il partito deve organizzare la rete comunicativa dal basso verso l’alto, ogni sede deve essere un nodo della grande rete on line del partito. Poi la cosa essenziale: il partito deve avere la massima cura, ad ogni livello, della sua autonomia politica. Credo che questo sia un punto dirimente. Ad ogni livello si devono determinare le condizioni di questa autonomia, che a volte sono condizioni di tipo anche materiale-organizzativo.
Ad ogni livello il ruolo di direzione del partito e di leadership istituzionali deve esser tenuti distinti. Non deve, in premessa, esistere automatismo fra ruoli di direzione del partito e candidature a compiti istituzionali. Sulla base di queste essenziali indicazioni, credo abbastanza precise,
(e altre ne potrei produrre,) io dico che si deve procedere con immediatezza alle modifiche allo statuto, alla revisione degli assetti organizzativi degli organismi di direzione politica, e dell’attribuzione delle risorse finanziarie.
Quando mi capitò, venti mesi fa, di definire partito liquido il rischio che avevamo davanti, mi si volle descrivere come un partitista vecchio stile, pronto a fare la riedizione di una specie di primato del partito. Era esattamente il contrario e forse ora lo si può capire meglio. Un partito non è mai un fine, è un mezzo, è uno strumento per promuovere cambiamenti utili alla vita collettiva; (come avviene per ogni associazione, la nostra ragione sociale è fuori di noi.)
La ragione sociale del partito è il Paese e se vogliamo essere utili al Paese dobbiamo essere un partito che funziona, che crea solidarietà ed appartenenza e che traduce la partecipazione in iniziativa esterna, senza farla girare su se stessa. Questo è molto semplicemente quello che penso e quello su cui voglio confrontarmi.
Ho finito cari amici e compagni. Ho cercato di metterci poca retorica e un pò di chiarezza. Spero di esserci riuscito. Dicevo all’inizio che in questo momento serve la testa. Concludendo, voglio dirvi però che ci vuole anche il cuore, ma il cuore non deve battere tanto per il leader o per il partito.
Mentre guardiamo avanti, ricordiamoci per un attimo, non solo delle responsabilità enormi che abbiamo nel futuro, ma anche di quelle che abbiamo rispetto al passato. Centocinquant’anni nei quali tanta gente, pronunciando le nostre stesse parole, le ha pagate ad un prezzo ben più alto del nostro.
Dico che se andassimo nel futuro senza sentire questo legame, saremmo come astronauti persi nello spazio. Il cuore deve battere soprattutto per l’antica e modernissima idea che questo mondo e questo paese possono essere davvero concretamente un pò più umani e un pò più giusti.
Io dico che chi ci crede è giovane e che è vecchio chi non ci crede più.
GRAZIE
Roma 1 luglio 2009
tatro Ambra Jovinelli
Subito qualche scusa e ringraziamento. Mi scuso, intanto, con le centinaia di persone che sono fuori da qui e mando loro un saluto. Mi dispiace, non pensavamo ad un’affluenza di questo genere. Un ringraziamento fatemelo fare – anche se non tutti ce ne siamo accorti in questo momento particolare – allo staff di Vasco Rossi che ha voluto regalarci un minuto di una rielaborazione di una bellissima sua canzone. Questo mi ha fatto molto piacere. E ringrazio voi, naturalmente, tutti voi, per aver raccolto il mio invito che, come sapete, è rivolto in particolare alla nuova generazione che è già in campo. Così farò in altri appuntamenti, in altre iniziative al nord ed al sud del Paese.
Non c’è bisogno di inventarsi una nuova generazione, neanche c’è bisogno di raffigurarla per simboli! Bisogna aprirle la strada. In primo luogo, aprirle la strada facendo in modo – e cominciamo qui – che possa direttamente prendere in mano, in ogni luogo del Paese, la discussione politica che avremo. E, in secondo luogo, facendo in modo che questa generazione possa misurarsi ad ogni livello nelle funzioni esecutive del partito. È quello che mi impegno a fare, a cominciare dal livello nazionale. È giusto che chi si predispone a sostenermi sappia bene come la penso a questo proposito.
Io ho in mente un partito nel quale c’è rispetto, rispetto per la generazione precedente; e un partito nel quale la generazione che viene prima, considera suo compito aprire subito la strada alla nuova generazione, sostenendola ed accompagnandola. Ho detto che avremo una discussione politica, finalmente una discussione politica! Una discussione sull’Italia e su noi, per renderci più utili alla riscossa del nostro Paese e agli interessi e ai valori che vogliamo rappresentare.
In questi mesi ci si deve accorgere che vogliamo avvicinare il Partito Democratico all’Italia. Dobbiamo guardare in faccia la realtà. In questi venti mesi abbiamo suscitato molte speranze, e una parte di queste speranze è rimasta delusa.
Molti elettori si sono allontanati da noi. Abbiamo vissuto in molti luoghi del Paese il venir meno della solidarietà fra di noi. Fenomeni di ripiegamento, di divisione, perfino di anarchismo. Le elezioni hanno segnalato, in particolare, un indebolimento del nostro legame con ceti popolari e ceti produttivi, confermandoci che la destra, quando vince, vince nel popolo.
E, tuttavia, di fronte a tutto questo non è mancato nelle nostre file la capacità di mobilitazione, di reazione. Nel pieno di una battaglia difficile abbiamo mostrato punti significativi di tenuta. Il nostro progetto non è stato mai messo in discussione. Franceschini lo ha detto e sono d’accordo con lui. Abbiamo le condizioni politiche per riaffermare il progetto e per rimetterlo in cammino.
Ma ecco il punto di partenza, che mi indusse mesi fa ad annunciare la mia candidatura. Secondo me, ci sono forti correzioni da fare. Chiariamo subito un punto: non si dica che i nostri problemi sono venuti dal presunto tradimento di un’ispirazione originaria. I nostri problemi sono venuti dal non aver messo ancora il nostro progetto su basi culturali, politiche ed organizzative abbastanza solide. Questo è il nostro problema e questo è il problema che il Congresso deve risolvere. Un congresso, quindi, fondativo del nostro partito.
Lo dico con franchezza: se non prenderemo in mano noi stessi, autonomamente e responsabilmente il nostro destino, se ci faremo prendere la mano da una discussione confusa e tutta mediatica, se ci attarderemo a discutere su categorie inafferrabili, su chi è democratico doc e chi no, sul nuovo e sul vecchio, sul vecchio e sul giovane, su chi deve star dentro e chi deve andare fuori, su chi ha la cravatta e chi no, io credo che gli italiani, giustamente, rivolgeranno lo sguardo altrove.
E noi ci ritroveremo senza solidarietà, senza contenuti e, temo, anche senza partito. Io cercherò un’altra strada. Io farò un congresso contro nessuno, discutendo di politica e cercando, per quello che mi sarà possibile, di essere chiaro e concreto, di evitare la retorica. Forse ne abbiamo usata troppa in questi venti mesi e alla fine non ha scaldato il cuore. Gli italiani non l’amano.
In una discussione vera, per me, non c’è bisogno di supporters. C’è bisogno della testa e della testa di tutti. Io ci metterò la mia testa, come ho sempre fatto. Io sono il candidato di nessuno, e sono il candidato che pensa che ci sia bisogno di tutti. Di tutti. Dirò l’essenziale di quel che penso sull’Italia, sui nostri compiti politici, sul partito, sapendo bene che, come capita in questi casi, non potrò essere breve. Dovrete avere un pò di pazienza. Neanche riuscirò ad essere esaustivo, e me ne scuso!
Voglio partire con una premessa per me non di poco conto. Prima di parlare d’Italia e di parlare agli italiani, dovremmo avere un’idea un pò più chiara sulla nostra carta d’identità, sul nostro biglietto da visita. Noi abbiamo affermato e ancora sento affermare l’esigenza di un partito post-identitario. Io non ci credo, non ho mai capito cosa significasse.
L’idea secondo la quale affidandoci a labili e forse ovvii riferimenti valoriali e ad un pò di eclettismo nella cultura politica, ce ne venissero larghezza di orizzonti, forza attrattiva, credo sia un’idea infondata, perché senza un’identità riconoscibile ogni gesto, anche il più provvisorio, il più tattico, mette un interrogativo su chi sei davvero.
Senza un’identità riconoscibile ti privi di un messaggio di senso verso le generazioni nuove. Senza un’identità riconoscibile ti disarmi verso una destra che sparge ideologia, cioè un senso comune, un sistema di concetti che vengono prima della proposta politica o dell’azione di governo. Il “berlusconismo”, il “leghismo” li definiremmo forse post-identitari, post-ideologici? Eppure è con questi che noi abbiamo a che fare e, quindi, alla fine di questo congresso dovremmo aver detto qualcosa di più chiaro su di noi. Io parlo di un Partito Democratico che vuole interpretare ed estendere l’area del centrosinistra con il profilo di un partito popolare, un partito di una sinistra democratica e liberale che abita dove abitano le forze progressiste, socialiste, liberaldemocratiche del mondo, che partecipa all’alleanza tra socialisti e democratici in Europa. Parlo di un partito popolare, quindi non classista, non elitario, non populista, radicato in ogni luogo e capace di esperienze e di linguaggi che siano legati alla vita reale.
Un partito che si rivolge ad un arco ampio di ceti, di categorie sociali, ma che non può vivere scollegato dai ceti popolari, dai ceti produttivi e dalle nuove generazioni. Un partito, dicevo, che interpreti l’area del centrosinistra col profilo di una sinistra democratica e liberale, cioè di un partito che si ispira ad un’idea di uguaglianza e la rende concreta sia attraverso un mercato aperto e regolato, che distribuisca equamente occasioni, sia attraverso politiche pubbliche, sociali e universalistiche di ridistribuzione, di welfare, di promozione dei beni collettivi.
Per me, il Partito Democratico è un partito del lavoro, nella molteplicità dei suoi aspetti e dei suoi protagonisti, che rivendica la dignità e il ruolo sia del lavoro subordinato, sia di quello autonomo e imprenditoriale. Nel concreto, ne sostiene la prevalenza rispetto alle rendite e ad ogni privilegio. Il Partito Democratico, per me, è un partito laico, che non per questo banalizza o relativizza convinzioni o valori, crede anzi nella forza positiva delle convinzioni filosofiche e religiose. E, tuttavia, le distingue dalla responsabilità autonoma della politica, che ha il compito di promuovere decisioni pubbliche, tenendo conto della coscienza di tutti. Così come è stato insegnato dalle radici profonde della cultura cattolico-democratica.
Il Partito Democratico riconosce nella sfera dei diritti civili un fattore fondamentale di avanzamento umano, attraverso l’affidamento progressivo alla libertà e alla responsabilità dell’individuo di questioni che prima erano ricondotte ad una dimensione di etica pubblica. Ho fatto altrove questo esempio: fino a pochi anni fa lo stupro era un reato contro la morale; chi lo definirebbe così adesso? Adesso è un reato contro il diritto all’intangibilità della persona! Il PD riconosce l’esigenza di regolare i possibili usi distorsivi della tecnica, il rischio della sovranità della tecnica, in particolare per quel che riguarda la possibile manipolazione dell’uomo.
Quando la politica è chiamata ad avvicinarsi ai temi cruciali della persona e della condizione umana il Partito Democratico fa riferimento ad un umanesimo forte, di natura cristiana e laica, che vive nelle radici profonde della nostra cultura politica e che non consente che, come debba, morire io lo decida il senatore Gasparri o il senatore Quagliariello,
che non consente che lo Stato invada i mondi vitali della persona e della famiglia. Il Partito Democratico è il partito del nuovo civismo, non perché pretenda di essere un’autorità morale, ma perché vuole promuovere una società organizzata su diritti e su doveri e su quella regolazione implicita della società, che prenda forza da comportamenti ispirati al civismo. E questo a partire dalla sobrietà della politica, come primo punto di questa riscossa civica.
Infine, il Partito Democratico è il partito del nuovo secolo, un partito contemporaneo, fortemente orientato alla modernità. Vuole misurarsi sui nuovi problemi, promuovere in ogni campo le prospettive delle nuove generazioni. Ma tutto questo, secondo me, diventa più agevole traendo forte senso da antiche radici che, oltrepassano largamente le vicende degli ultimi decenni, i DS, la Margherita, il PC, la DC, il “compromesso storico”.
Mettiamo tutto questo in un percorso più ampio, più lungo. La nostra narrazione deve prendere a riferimento questioni più essenziali, radici più essenziali. Radici di emancipazione, di riscatto, di auto-organizzazione, di solidarietà, di autonomia, che furono la premessa vivente delle grandi formazioni politiche e popolari all’affacciarsi del secolo scorso.
Allora si formò l’idea che, prendendo le parti ed il punto di vista di chi lavora e produce, di chi è più debole e subordinato, si potesse costruire una società migliore per tutti. E davanti alle condizioni nuove del nuovo secolo, questa resta la nostra profonda ispirazione, la nostra carta d’identità e, al tempo stesso, questo resta il nostro fondamentale problema nei tempi nuovi, nei tempi che si affacciano: darci un nuovo radicamento nei grandi ceti popolari.
All’uscita dal Congresso dovremo avere le idee più chiare su tutto questo, per poterci rivolgere con un profilo netto all’Italia. Se vogliamo parlare dell’Italia noi dobbiamo farlo nel cuore di questa crisi; non ne usciremo come ci siamo entrati, né per l’economia, né per la politica.
La gestione della destra è fatta di minimizzazione, di cabotaggio.
Ci prepara stagnazione economica, ci prepara crisi della finanza pubblica. Ci prepara una stagione ulteriore di condoni e quindi la previsione di ulteriori aumenti della pressione fiscale. Ci prepara l’abbandono sostanziale delle situazioni sociali più deboli.
Noi chiediamo anche da qui e con forza al Governo di assumere una maggiore responsabilità, di non edulcorare i dati della crisi.
Chiediamo al Governo di smetterla con le piccole pillole comunicative, chiediamo una gestione più aggressiva, una vera manovra anti-crisi che metta soldi veri e nuovi dove vanni messi: nei redditi di chi, a qualsiasi titolo, perde il posto di lavoro; nella liquidità delle piccole imprese ed in investimenti immediati che solo gli Enti Locali sono in condizione di fare.
Stimoli all’economia reale, preservazione delle nostre capacità produttive, impresa, lavoro; misure temporanee, ma effettive, consistenti! La crisi non è psicologica e non è alle nostre spalle. Purtroppo, gli effetti economici e sociali della crisi ce li abbiamo ancora davanti. E, soprattutto – ecco il punto di cui il Governo non vuole occuparsi – abbiamo davanti il rischio di una caduta di rango del nostro Paese, il rischio che vengono azzoppati, bloccati, contraddetti i processi di innovazione e di investimento e che ci troviamo all’uscita dalla crisi in una condizione più debole della nostra economia nel quadro internazionale.
In ogni caso, noi dobbiamo affiancare i protagonisti della crisi. Nel viaggio che farò, in occasione del Congresso, ovunque sarà possibile, cercherò di avere un incontro con i lavoratori, con gli imprenditori che sono sottoposti ai processi di crisi.
E invito tutti a fare altrettanto. Bisogna che il nostro partito ci sia. Poi si vede come fare ma, intanto, bisogna esserci, nei luoghi di questa crisi. Questa crisi scatenata dalla finanza ha origini in realtà, lo sappiamo, in politiche economiche squilibrate, fondamentalmente poggiate sull’idea che la ricchezza smisurata di pochi possa fare da locomotiva per tutti. E adesso, dagli Stati Uniti alla Cina, tutti sono costretti a cercare un nuovo equilibrio tra economia e società, mediato dalla politica; a cercare uno sviluppo più equilibrato dei loro mercati interni, a sviluppare un’attenzione più marcata di beni collettivi, a quelli ambientali, per esempio. E a tornare ai fatti fondamentali della produzione e del lavoro.
E allora, se è così, i principi di equilibrio sociale e di eguaglianza possono pretendere, oggi, più di ieri, di essere portatori di una razionalità economica. Si può affermare l’idea che nessun cittadino, nessun ceto sociale, nessun paese può star bene da solo se anche gli altri non trovano la strada per stare un pò meglio.
E, mi rendo conto, una prospettiva controversa, aperta ovunque – anche da noi – ad altri sbocchi di tipo protezionistico, difensivo, regressivo, ma pur tuttavia è un terreno nuovo, un banco di prova. Anche qui in Italia. Come in una crisi, che non sarà breve, suscitare un progetto, uno sbocco possibile, un orizzonte di cambiamento che impedisca una regressione strutturale del nostro sistema, sul piano socio-economico e anche sul piano culturale, ideale? Questo è un rischio che c’è, e che può portare a sbocchi politici che oggi non possiamo prevedere. Noi dobbiamo dunque uscire da questo congresso con un’idea positiva del nostro paese, un’idea che abbia concretezza. Non tocca ad un congresso fare un programma di governo, ma l’ispirazione essenziale di un programma sì, questo dobbiamo definirlo, in questo congresso.
Io comincio da qui. Tutto quello che si può fare per l’Italia viene disperso se non si aggrediscono le due questioni che ci caratterizzano tra i paesi maturi e che imprigionano le nostre energie. Le due questioni sono: primo, la più cattiva distribuzione della ricchezza; secondo, la minore mobilità sociale.
La ricchezza mal distribuita fra ceti e mal distribuita fra territori si accompagna da tempo ad un netto impoverimento, che dura da anni, dei ceti medi, dei ceti medio-bassi e bassi. Ad una riduzione sul pil dei redditi da lavoro, redditi spesso sempre più occasionali e precari. Fenomeni che sono ovunque nei paesi maturi, ma qui più accentuati. E su questi ceti indeboliti, su queste famiglie indebolite, si scaricano tutte le novità: la precarietà, il disordine di un’immigrazione che preme sul più basso decile di reddito, affolla quel decile di reddito, la non autosufficienza, che è in grado di mettere in ginocchio anche una famiglia a reddito medio, e tante altre cose ancora. Se non si coglie tutto questo, credo non si colga la sostanza, di cio che sta avvenendo nel paese e non si capisce neanche che cosa sia e cosa debba fare un partito popolare. Allo stesso tempo, i riflessi difensivi che scattano nelle fasi critiche aggravano i tradizionali assetti corporativi, relazionali, clientelari ai quali siamo da tanto tempo abituati nel nostro sistema. Blocchi che imprigionano enormi energie economiche e che imprigionano le prospettive delle nuove generazioni; sono blocchi che nella crisi si stringono ancora di più.
Su questi due punti fondamentali ci vogliono riforme, riforme vere che noi dobbiamo avanzare con una proposta che si faccia capire. A proposito dei redditi: se noi, nel futuro, vogliamo aprire – come vogliamo, per i principi che ci caratterizzano – una nuova fase universalistica dei sistemi di welfare, dove in via di principio non c’è povero nè ricco, allora innanzitutto dobbiamo qualificare, rendere sostenibile l’universalismo che c’è già.
Ad esempio qualificare e rendere sostenibile il sistema sanitario, imponendo le migliori pratica. Solo noi abbiamo la cultura di governo per fare davvero questa operazione, gli altri non ce l’hanno. E intanto che difendiamo l’universalismo che c’è, e che la qualifichiamo, dobbiamo introdurre nuovi universalismi, portare l’universalismo dove non c’è ancora. Il primo punto riguarda il dualismo del mercato del lavoro, che va assolutamente superato, aprendo, in particolare, dei processi univoci, ben definiti, di inserimento nel lavoro e di stabilità del lavoro.
Voglio ricordare a me stesso e a voi che i giovani che, a qualsiasi titolo, fanno la prima esperienza di lavoro – questo ci risulta anche dalle ultime elezioni – sono quelli che più si allontanano da noi. È ora di dire a loro qualcosa che si capisca. Di proposte per il superamento di questo dualismo ce ne sono diverse sul tavolo, bisogna discutere, stringere e promuoverle.
Bisogna occuparsi dei redditi di ultima istanza e bloccare processi di impoverimento estremo delle famiglie. Bisogna occuparsi di salario minimo, anche per vie contrattuali. Bisogna sollecitare davvero una contrattazione che distribuisca un pò meglio i guadagni di produttività. Bisogna favorire l’innalzamento flessibile e volontario dell’età pensionistica, ma al contempo aprire una riflessione più di fondo, perché quando il 54% delle nuove pensioni Inps 2007 è sotto i 750 euro e la tendenza è a peggiorare, vuol dire che nella prospettiva stiamo mandando un sacco di gente sotto la soglia di povertà.
Questo non è accettabile e dobbiamo pensarci da subito e chiederci se davvero le “gambe” del sistema previdenziale, che abbiamo fin qui introdotto, non vadano arricchite, rafforzate, ristrutturate, aggiungendo anche uno zoccolo universalistico fondato sulla fiscalità generale a fronte di un calo significativo dei contributi.
Così come non possiamo lasciare senza novità temi cruciali, come quelli della non autosufficienza e quelli delle famiglie numerose. Queste riforme possono reggersi, per una parte sostanziale, sul riequilibrio dei rapporti di convenienza interna e sulle risorse pubbliche già impegnate. Ma certamente non può essere rimosso, in un paese come il nostro, il tema della fedeltà fiscale, di una più equa distribuzione del carico fiscale, di una riformulazione della fiscalità d’impresa in modo più favorevole all’occupazione e soprattutto a meccanismi che inducano una fisiologia di emersione, di trasparenza, di tracciabilità nella formazione dei redditi e delle basi imponibili.
E sul tema della mobilità sociale è importante premettere un concetto: la liberalizzazione è il contrario del liberismo. Liberalizzazione è dare regole al mercato, evitando il dominio dell’uno sull’altro; il liberismo è il mercato che si dà le regole da sé e anzi pretende anche di imporle alla società, alla sanità, al sociale e così via. Dobbiamo attaccare con nettezza assetti corporativi e relazionali per l’accesso alle attività economiche, alle professioni e alla ricerca. Dobbiamo farlo senza paura, prendendo il punto di vista della nuova generazione e mettendolo dentro come un motore della nostra politica.
E così dobbiamo cambiare ottica, non possiamo parlare di casa solo a proposito di proprietà della casa, c’è bisogno di parlare anche di affitto, altrimenti nel paese non può esserci mobilità. E dobbiamo occuparci di più della progressione del lavoro delle donne, ampiamente discriminate, qualificare ed accorciare i percorsi di studio e cosi via. Voi lo sapete, propongo sempre di collegare il tema della mobilità sociale al tema della cittadinanza, della riscossa civica, di un nuovo civismo nel nostro paese. Responsabilità, merito, diritti e doveri, rispetto dei cittadini e in particolare del più debole, dell’escluso.
Qui ci sono tantissimi temi. Noi non possiamo non occuparci senza incertezze del tema della sicurezza, non nella prospettiva sicuritaria-repressivo-regressiva della destra, ma nella forma rigorosa del diritto del cittadino alla sicurezza, a cominciare dal cittadino più debole, a cominciare dalla liberazione del cittadino e dell’impresa da tutte le mafie.
Dobbiamo assumere la questione dei diritti civili, essere in prima linea nella tutela del consumatore e portare questo famoso merito dal cielo alla terra; il che vuol dire accettare meccanismi di valutazione esterna in ogni campo, altrimenti parliamo di merito assolutamente in astratto. E dobbiamo anche essere in prima linea nel pretendere l’efficacia delle sanzioni, a cominciare dalla giustizia civile.
Sapete in questa crisi quanti artigiani si sentono dire dal cliente: guarda i soldi ti sono dovuti ma io non te li dò, rivolgiti pure all’avvocato o a chi vuoi, tanto ci vogliono dieci anni? Non è una cosa tollerabile! E cittadinanza vuol dire tante altre cose: promuovere la cittadinanza digitale, per esempio, con i nostri Enti Locali, una battaglia di frontiera bellissima. Vorrei mettere qui, sotto questo grande titolo civico l’esigenza di cui dobbiamo caricarci, di riportare al centro della discussione la dignità e la fatica della condizione femminile, oggi insultata dai devastanti stereotipi e berlusconismi.
Dobbiamo pretendere rispetto, rispetto per questa condizione. E dobbiamo mettere sotto il titolo della cittadinanza, temi delicatissimi, come quello dell’immigrazione. Noi siamo perché l’immigrato regolare acquisisca i diritti e i doveri della cittadinanza e accompagniamo quel processo secondo principi di solidarietà, di umanità che deve prevalere comunque sopra ogni altra cosa. Ma non dimentichiamo mai che se c’è disordine e approssimazione nella regolazione dei flussi migratori quel disordine e quella approssimazione si scaricano sulla parte più debole della popolazione. Se ce ne dimentichiamo, non potremo lamentarci del diffondersi di idee regressive in chi può pensare, a ragione o torto, che si possa fare un mondo perfetto a spese sue. C’è un impatto da distribuire meglio, più equamente, tra chi fruisce più direttamente dell’immigrazione e chi può averne, a torto o ragione, paura. A cominciare dalla pressione sui servizi pubblici.
E, infine e non per ultimo, metto sotto questo tema della riscossa civica – come dicevo - il tema della sobrietà della politica, a cominciare dalle muraglie cinesi fra interesse pubblico e privato. E a cominciare dai costi della politica. Qui non c’è bisogno di qualunquismo, di populismo e anti-politica. C’è bisogno di procedere a parametrarci con i costi medi di ogni funzione della politica dei principali Paesi europei. Una misura molto semplice, non qualunquista, che credo potrebbe avere una buona efficacia.
Cari amici e compagni, dobbiamo essere un partito che dice le stesse cose al nord ed al sud. È diventato molto difficile, ma come direbbe Vasco siamo solo noi che possiamo farlo. Siamo solo noi.
Il Nord, oltre che un luogo geografico, è una metafora dei ceti produttivi e più esposti alle dinamiche globali. Non c’è possibilità alcuna di rafforzare il nostro radicamento al nord senza correggere verso ceti popolari, ceti produttivi, lavoro, impresa l’asse generale delle nostre politiche. Non c’è alcuna possibilità fuori da questo. E questo, tuttavia, deve svolgersi in una reciprocità con la questione meridionale.
Per esperienza posso dire una cosa: se fai delle riforme parli che si rivolgono alle esigenze di modernizzazione del Paese rispondi al nervosismo, all’insofferenza del Nord; ma metti anche in moto le dinamiche nelle aree meno sviluppate del Paese. E questo è ovvio, perchè là sono le energie potenziali. Allora, per esempio, se faccio liberalizzazioni, funzionano più al sud che al nord, se supero intermediazioni, come per esempio nelle incentivazioni della pubblica amministrazione, piaccio al nord, ma faccio un enorme piacere al sud.
Cosi se mi occupo di sicurezza, di funzionamento della giustizia, allora una stagione di riforme di modernizzazione che liberi energie potenziali al sud e parli al nord del Paese è possibile, si può fare.
E naturalmente, costruendo questa reciprocità, non può essere oscurata la parola “Mezzogiorno”, che oggi viene devastata, rimossa, male interpretata. Dobbiamo pronunciare questa parola con proposte nuove, che siano impugnate anche da una nuova generazione di protagonisti.
Gli investimenti al sud vanno garantiti, non vanno rubati, rapinati e dispersi. Ma si possono fare in altro modo, come avevamo cercato di impostare: meccanismi automatici, non intermediati, per sostenere gli investimenti di impresa. Meccanismi premiali che premiano chi raggiunge certi standard di servizi, sto parlando di rifiuti, sto parlando di acqua, sto parlando di istruzione, sto parlando di anziani. Piani nazionali sui beni collettivi: energia, acqua, ambiente.
Questa ricerca di reciprocità, in un partito che vuole essere un partito nazionale ma federale, la si gioca su un buon assetto del federalismo. Non vado al concreto, è un tema complesso di cui non voglio parlare qui. Qui sto alla politica. Dico che, essendo un partito nazionale, noi dobbiamo però operare una forte ripresa sul piano politico e culturale della grande tradizione autonomista che sta nelle nostre radici e di cui troppo spesso ci dimentichiamo.
Un autonomismo che è il nostro e non è il loro! E non dobbiamo accettare lezioni da loro. Perché, alla fine, gli asili nido e le aree artigianali li abbiamo inventati noi, bisogna sempre ricordarselo! Non ce ne ricordiamo abbastanza. Non possiamo essere un partito delle autonomie dei territori, come ci diciamo spesso, se ci limitiamo a fare proposte normative. Dobbiamo far proposte normative, ma dobbiamo approfondire e rilanciare la nostra cultura autonomistica nel merito, nei contenuti e dobbiamo darci un’organizzazione di partito coerente con tutto questo. Ci vogliono tutte e tre queste cose.
Credo molto all’energia che può venirci dalla crescita della soggettività politica dei nostri amministratori. Credo alle amministrazioni come leva fondamentale di selezione delle classi dirigenti e perché non manchi un saluto a tutti i nostri amministratori che sono sul fronte, voglio rivolgermi, per tutti loro, ai nostri amministratori aquilani che non lasceremo soli in un impegno terribilmente difficile e con un Governo che ha sbagliato dal primo giorno il rapporto con loro. Altro che il G8!
Spero di avere possibilità di sviluppare in altre sedi, non posso farlo qui, qualche altro cardine di una politica riformista. Ci sono un paio di punti che non voglio banalizzare in tre righe, sui quali voglio organizzare due appuntamenti specifici: il primo riguarda il salto di rango di tutta la filiera della conoscenza, come fare del nostro partito la punta avanzata che garantisca un passaggio dell’Italia alla società della conoscenza. E non vado nel dettaglio, su questo faremo un’iniziativa specifica.
Il secondo punto, che ugualmente non voglio banalizzare, è il grande tema delle politiche produttive e industriali nel loro collegamento con la conoscenza e nel loro collegamento col grande tema ambientale, che è la nuova grande frontiera di innovazione industriale, di qualificazione dei consumi e di miglioramento della qualità della vita.
Quindi rimando i temi ai due appuntamenti che organizzeremo.
Sulla piccola impresa però, parlando di innovazione, di politiche industriali, vorrei dire una parola. Noi dobbiamo veramente fare qualcosa di visibile, di concreto su un paio di punti. Uno è alleggerire l’impresa dal peso della rendita finanziaria e immobiliare, l’altro è cercare nuovi sistemi di relazione e una partecipazione più attiva, più vicina, dei lavoratori alla vita dell’impresa.
E bisogna anche che noi superiamo davvero una barriera mentale che c’è tra noi e la piccola impresa. Bisogna che ci diciamo, molto semplicemente, che un imprenditore privato, cooperativo, artigiano, commerciante che sta nelle regole fa pienamente parte del nostro progetto, è un protagonista del nostro progetto! Mi ha veramente colpito, ( sono figlio di artigiani anch’io),un mese fa, la vicenda di quell’artigiano di Treviso, Walter Ongaro, che angosciato dalla crisi, probabilmente per la preoccupazione di dover licenziare delle persone con cui aveva lavorato per decenni, si è tolto la vita. Voglio inchinarmi a lui come a tutti i morti sul lavoro.
Vorrei infine che fosse convocata dal nostro partito una grande conferenza sulla riforma della Pubblica Amministrazione, un tema su cui noi dobbiamo superare ritardi nella nostra cultura di governo.
C’è un punto di cui dobbiamo essere consapevoli: noi abbiamo bisogno del buon nome della Pubblica Amministrazione per le nostre politiche che richiedono spesso l’intermediazione della Pubblica Amministrazione, l’urbanistica, la sanità universalistica e così via. Gli altri, per le loro politiche, hanno invece interesse al cattivo nome della Pubblica Amministrazione, per le loro politiche deregolative. E, quindi, loro non ci risolveranno il problema! Infatti, ogni loro riforma non va oltre ad un richiamo all’ordine e c’è sempre dentro un insulto, un insulto che noi rifiutiamo, rigettiamo.
Riformare non è questo. Ma dobbiamo saperlo anche noi che cosa vuol dire riformare la Pubblica Amministrazione. Vuol dire fare quello che si fa normalmente dentro le politiche industriali e cioè avere meccanismi permanenti per adeguare la missione in ogni area dell’Amministrazione, avere strumenti che rendano praticabili le conversioni organizzative, per adeguare via via la Pubblica Amministrazione al mondo che cambia.
E tocca a noi tutto questo, gli altri non lo faranno e scaricheranno sempre politicamente su di noi l’inefficienza o il cattivo nome della Pubblica Amministrazione.
Naturalmente, avanzare una piattaforma significa aprire il dialogo con le organizzazioni sociali. Chi mi ha visto all’opera negli anni lo sa; io credo profondamente ai rapporti con i corpi intermedi e sono quasi un cultore, se così si può dire, della sussidiarietà, e sento di dover dire anche qui, ad esempio, che il mondo del lavoro in un passaggio così difficile ha bisogno che il sindacato ritrovi la strada della convergenza e dell’unità.
Ma so anche qual è la responsabilità nostra, di un partito politico; una responsabilità che non abbiamo sempre esercitato in questi venti mesi, diciamocelo. Tocca alla politica pronunciare un’idea di società. Le organizzazioni sociali, i corpi intermedi vogliono fare il loro mestiere e gradiscono che tu faccia il tuo, discutendo con loro, certo, ma sapendo anche dove possono trovarti, in modo che ciascuno possa praticare la propria autonomia. Diamoci dunque il progetto, diamoci un’idea di società. Ci risulterà più facile anche allargare il confronto con tutte le forze sociali.
E proprio qui, parlando di riforme, di contenuti, di innovazione, vorrei mettere – mi costa anche un pò per il carattere che ho – l’unica notazione personale di questo discorso. Vedo bene che da molte parti si cerca di mettere una patina di grigio sulla mia candidatura. Ora voglio dire semplicemente che, da quando cominciai, (molto giovane, girando a far politica per dei paesini di montagna) sono stato poi in tantissime responsabilità, e mi sono sempre preso la briga di cambiare. Non ho mai lasciato le cose come le ho trovate. Si può controllare.
E non le ho mai lasciate come l’ho trovate per due semplici motivi, di cui uno addirittura banalissimo: ho sempre pensato che la terra gira tutti i giorni e tutti i giorni devi cambiar qualcosa. E il secondo motivo è che questo mondo qua, questa società così com’è non mi piace del tutto. E, quindi, questa famosa innovazione, innovazione, innovazione… vorrei capire: ne parliamo a chiacchiere! Allora io non vorrei partecipare. Se ne parliamo a fatti, al contrario, io credo di aver qualcosa da dire.
Ma veniamo a cose più rilevanti che non i sassolini nelle scarpe: i nostri compiti politici; poi parlerò del partito e avremo concluso questa serata. Sui compiti politici, voglio dire prima di tutto che immagino le prospettive dell’Italia nello sviluppo di una politica estera di pace, di cooperazione, di corresponsabilità multilaterali, di rafforzamento e di riforma delle istituzioni internazionali, di una vera integrazione europea, di una forte soggettività dell’Europa, nella costruzione di istituti e regole della globalizzazione, di un suo protagonismo nella politica internazionale a cominciare dalle aree che sono a noi più vicine – i Balcani, il Medio Oriente, l’Iran insanguinato e preda di un nazionalismo aggressivo che vuole imporsi col pugno di ferro. Una politica estera secondo l’asse fondamentale di quella che è stata la politica estera dei governi di centrosinistra, che è riuscita a ridare ruolo, funzione, dignità alla nostra presenza nel mondo. Funzione e dignità che oggi sono dispersi in una politica estera da rotocalco e su questo; (siccome so che sono in sala dei rappresentanti del PD degli italiani all’estero, mandiamogli un applauso di incoraggiamento!)
Il ciclo politico mondiale è segnato ancora dall’evoluzione della crisi, dalle nuove dinamiche, della globalizzazione. In tutti questi anni la destra si è mostrata spesso capace di cogliere i frutti politici di queste dinamiche; di coglierne i frutti politici, sia dal lato della deregolazione, del liberilismo, sia dal lato delle paure che la de regolazione suscitava. Quindi la destra è riuscita a fare un pò tutte le parti in commedia.
Adesso in molte parti del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, le forze progressiste si mostrano capaci di indicare una prospettiva nuova. In Europa le forze progressiste di sinistra, nella prevalente tradizione socialdemocratica, appaiono ferme sulle gambe e sono da tempo colpite dalla crisi del compromesso sociale, che è stato il luogo politico per eccellenza della costruzione, formazione e rafforzamento di queste socialdemocrazie. Un compromesso sociale che è risultato affaticato dai suoi limiti interni, affaticato da orizzonti esclusivamente nazionali – questo è stato un limite enorme – ma scosso, però, anche dalla frusta della globalizzazione che ci ha portato in casa degli effetti dumping sui salari, sui diritti, sulla fiscalità.
E queste forze non sono apparse in grado di indicare una prospettiva per l’Europa, a volte mostrando staticità, ripiegamenti e anche un qualche smarrimento dell’autonomia politica e culturale, come se bastasse a noi forze progressiste applicare più benevolmente le ricette degli altri. D’altra parte, la destra, anche nelle recenti elezioni europee, ha accumulato consenso, ma in modo spesso frammentato e imprigionato in formule difensive, addirittura regressive.
A me pare che da tutto questo, in sostanza, derivi una perdita d’orizzonte delle politiche europee come tratto fondamentale di questa fase, cioè un’assenza di direzione di marcia. Come dicevo, c’è un aggiustamento incombente degli equilibri economici e sociali fondamentali nelle diverse aree del mondo. E questo lascia aperta la strada, durante e dopo la crisi, a sbocchi politici di diverso segno. Lo ripeto, non c’è dubbio che l’affacciarsi, a livello mondo, di nuove esigenze di regolazione e di un ruolo della politica nel determinare compatibilità sociali e ambientali della crescita offre il terreno per una fase nuova di elaborazione di iniziative delle forze democratiche e di sinistra europee. Una possibile riscossa alla quale i democratici italiani devono contribuire, a partire dalla nostra situazione nazionale.
Nella dimensione italiana, la fase che si è aperta negli anni Ottanta ha determinato una riorganizzazione della politica, prima segnata da condizionamenti ormai estenuati della logica dei blocchi, poi dal vuoto lasciato dalla caduta del muro e dall’impronta di anti-politica con cui quel vuoto si è andato via-via chiudendo.
Noi abbiamo avuto una fase di consolidamento bipolare, che bisogna riaffermare, ma che ritengo stabilizzata nella sua essenzialità e, tuttavia, irrisolta nella sua forma. Noi abbiamo vissuto un periodo nel quale Berlusconi, sostanzialmente, ha riorganizzato e reso utilizzabile per il governo del Paese tutto il campo del Centrodestra. Questa è stata la grande novità.
Una fase nella quale il Centrosinistra ha conteso il governo del Paese, non senza risultati rilevanti, a cominciare dal grande appuntamento dell’Eur, ma senza trovare ancora una vera organizzazione del campo, nonostante la grande intuizione dell’Ulivo di Romano Prodi, che voglio salutare da qui.
Nonostante la grande intuizione dell’Ulivo di Prodi – dicevo - e nonostante la nascita del Partito Democratico. Nessuno, peraltro, è riuscito in questi anni a sfondare davvero elettoralmente nel campo altrui; incursioni sì, sfondamenti no. Nel nostro Paese esistono dunque le potenzialità del ricambio, ma c’è ancora la presa di una leadership conservatrice con dei tratti fortemente ideologici.
Questa leadership mostra con evidenza di esser sempre tentata ogni giorno di mettere il consenso davanti alle regole, di utilizzare il Governo per accumulare consenso, piuttosto che utilizzare il consenso per conseguire risultati veri, di governo, misurabili, utili alla riscossa del Paese. E, quindi, si rendono via via più evidenti sia i rischi di deformazione della nostra democrazia in senso populistico, sia le contraddizioni che la leadership conservatrice apre nei suoi rapporti col Paese. Non possiamo sottovalutare che le ultime elezioni hanno comunque segnato una battuta d’arresto della spinta propulsiva di Berlusconi.
Quindi bisogna determinare con maggiore chiarezza di quanto non sia avvenuto fin qui il compito politico del Partito Democratico. Per me, questo compito si presenta con tre aspetti intimamente connessi: profilare meglio la nostra identità, il nostro progetto; tenere aperto il cantiere del partito; contribuire con efficacia all’organizzazione del campo del Centrosinistra. Sono convinto che un nostro profilo più leggibile, un’idea più chiara di partito potranno aiutarci, nei mesi successivi al Congresso e sulla base di vincoli programmatici, nella possibilità di riaprire un percorso di convergenza con formazioni ambientaliste di sinistra e civiche, che non hanno fino ad oggi partecipato alla costruzione del Partito Democratico.
L’originaria ispirazione dell’Ulivo non può essere rimossa, nè vivere solo in una chiave evocativa, perchè non è infatti esaurita la questione sostanziale dell’incontro fra tutte le culture, le esperienze politiche e progressiste ancora oggi divise. E, tuttavia, questo non può essere un compito esaustivo; si deve accompagnare all’esigenza di riconoscere l’autonomia e la responsabilità di altre forze del Centrosinistra e dell’opposizione e di tracciare i primi passi politici per una riorganizzazione del campo dell’alternativa. Da soli non si può fare nulla.
La vocazione maggioritaria del PD non può lasciare immaginare un ruolo esclusivo, va interpretata invece come capacità di presentare un progetto aggregante di governo del Paese e come responsabilità primaria nella costruzione di alleanze per una prospettiva politica di alternativa. Credo che il quadro di alleanze non sarà predefinito dal nostro congresso; deriverà da un percorso politico e programmatico e il primo grande ambito nel quale delimitare e proporre il confronto è quello della democrazia: istituzioni, regole, meccanismi elettorali. La curvatura populista, quando non plebiscitaria, con cui Berlusconi sta caratterizzando la Destra italiana, dov’è che prende consistenza? Prende consistenza, oltre che in meccanismi impari di comunicazione, in un’ibridazione di fatto fra modello presidenziale e modello parlamentare, una sorta di continuum fra Governo e Parlamento che la legge elettorale attuale ha reso agevole.
Qui c’è una pericolosa deriva, che va interrotta, sia con una moderna legislazione antitrust nel campo della comunicazione, sia con una coerente riforma istituzionale ed elettorale. Ora, per un paese a democrazia matura, la scelta non può che essere fra struttura parlamentare e struttura presidenziale, ciascuna con i suoi contrappesi.
Tenendo conto delle caratteristiche nostre, del sistema politico italiano, della nostra tradizione, noi scegliamo un modello parlamentare rafforzato e razionalizzato. E questo comporta, secondo proposte già avanzate in sedi culturali, in sedi parlamentari, un irrobustimento dei poteri dell’Esecutivo e del Premier e un irrobustimento delle forme di controllo del Parlamento, anche rivisitando i regolamenti. E la legge elettorale dovrà essere coerente con la forma di governo, dovrà evitare quindi ogni ritorno al proporzionalismo puro e perseguire un buon equilibrio fra rappresentanza, stabilità, governabilità, muovendosi nell’ambito di un bipolarismo nel quale l’elettore pretende di avere visibilità del quadro di alleanze e della loro stabilità. Questo equilibrio si può ottenere attraverso sistemi misti, ma la chiave politica è questa: la misura di questo equilibrio dovrà essere ricercato dialogando con tutte le forze politiche e parlamentari interessate a opporsi ai rischi di deformazione della democrazia, insiti nel modello della destra.
Quello che è essenziale è la valorizzazione massima del rapporto fra eletti ed elettori, un rapporto che è devastato dall’attuale legge elettorale e che può essere ristabilito riaffermandolo in particolare attraverso i collegi territoriali. Siamo interessati a ricercare per le vie parlamentari un percorso di riforma delle istituzioni, della legge elettorale, dei regolamenti e contribuiremo a questo percorso promuovendo un confronto con le forze di opposizione dentro e fuori il Parlamento.
E a questo grande ambito della democrazia noi dobbiamo affiancare anche la ricerca di una convergenza politica e programmatica sui temi economici e sociali, perché l’esigenza di proporre soluzioni sulle concrete condizioni di vita dei cittadini è percepita ampiamente oggi, quindi il PD promuove la centralità di questi temi, e chiede a tutte le forze d’opposizione un confronto e una iniziativa comuni, a partire dalle questioni cruciali della crisi. E qui c’è un punto importante. Credo che il PD debba esprimere la cifra della sua opposizione alla Destra, saldando la questione democratica, la questione economica e sociale. Perché privilegiando nella battaglia di opposizione un solo aspetto della crisi italiana, si rischia di assumere un ruolo minoritario o di denuncia impotente.
L’opposizione che serve è quella che, caratterizzandosi con nettezza e senza ambiguità, lascia intravvedere la costruzione progressiva di una nuova prospettiva di governo, sia dal lato dei contenuti, sia dal lato della costruzione di uno schieramento alternativo e già nelle prossime elezioni regionali si dovranno sperimentare su basi programmatiche larghi schieramenti di centrosinistra, alleanze democratiche di progresso alternative alla destra.
Le cose che ho detto fin qui sono una linea, non sono naturalmente la Bibbia. Io intendo mettere le cose che ho detto ed altre in un circuito che consenta di raccogliere lungo tutto il percorso congressuale i contributi, gli affinamenti, gli arricchimenti sia nel percorso interno al partito, sia nei circuiti della rete. Perché su un asse coerente questi contenuti, si devono migliorare, (credo che abbiamo il modo, in questa lunga vicenda derivata da uno statuto un pò farraginoso e barocco, di arrivare ad una partecipazione attiva di tantissima gente.
Ci organizzeremo per ricevere contributi anche sui contenuti. Così come faremo anche per la parte che riguarda il tema del partito.
La questione che ci si è posta nei mesi scorsi, secondo me, non è se essere un partito vecchio o un partito nuovo, ma se essere o no un partito. Se essere o no un’associazione volontaria, che avendo una ragione sociale, si dà un’organizzazione, un radicamento, dei luoghi di discussione politica effettiva, di partecipazione efficace degli aderenti, nonché una disciplina liberamente accettata e condivisa. Tutto questo non può essere risolto semplicemente ovviandolo con meccanismi di leadership mediatica o comunicativa, nè con meccanismi che garantiscano il semplice assorbimento della società così come essa si presenta.
(Quasi fossimo un’idrovora e l’idrovora poi gira nei due sensi, secondo come la registri: o assorbi tu la società, o ti assorbe lei. Ma non fa molta differenza.)
Il mancato chiarimento di questi punti fondamentali ha fortemente indebolito il nostro progetto, disperdendo energie, incentivando frammentazioni e, diciamolo pure, provocando delusione e ripiegamento sia di chi immaginava delle forme di condivisione, di militanza più tradizionali, sia di chi si attendeva una forte innovazione che, comunque, garantisse una partecipazione politica.
Quindi, dico che è urgente correggere la costituzione formale e materiale del Partito Democratico; è urgente innanzitutto prendendo sul serio il nome che ci siamo dati. Propongo concretamente e precisamente queste essenziali direzioni di cambiamento: il Partito Democratico è un partito di iscritti e di elettori. La sovranità appartiene agli iscritti che, sulla base di regole, la delegano in determinate occasioni agli elettori.
Quindi agli iscritti è riconosciuta una serie di diritti fondamentali, anche con strumenti incisivi come il referendum, e il radicamento organizzativo sul territorio, nei luoghi di studio, nei luoghi di lavoro è la condizione effettiva di un’apertura efficace agli elettori.
Credo di dover ribadire – mi sono attribuite sciocchezze a questo proposito – il valore democratico delle primarie fra gli elettori, per le scelte dei candidati alle cariche monocratiche: sindaci, presidenti di provincia e regione e presidente del consiglio. E aggiungo che le primarie non possono essere semplicemente una procedura elettorale, ma un’occasione per costruire forme anche parziali di partecipazione, di coinvolgimento, di relazione organizzata fra partito ed elettori. Aggiungo anche che le primarie dovranno svolgersi nell’ambito delle coalizioni di cui il PD fa parte, perchè la scelta delle candidature rappresentative del PD nelle primarie deve essere determinata con metodo democratico dagli iscritti e dagli organismi del PD. Il Partito Democratico è un partito nazionale organizzato su basi federali, ma bisogna capire che cosa vuol dire. Ha radici nel territorio, seleziona lì le sue classi dirigenti, attribuisce e garantisce a scala territoriale le fondamentali risorse. Il finanziamento derivato da rimborsi elettorali per elezioni regionali, del tesseramento, delle feste, contributi dagli amministratori dovranno essere destinate ai circoli e alle organizzazioni provinciali e regionali. E una parte del finanziamento elettorale nazionale europeo dovrà essere destinato ogni anno a progetti di radicamento del partito nella società, laddove siamo più deboli.
Aggiungo anche che la rappresentanza politica dovrà tenere conto, secondo me, stabilmente della dimensione territoriale. Quindi, nel rispetto del pluralismo congressuale, ogni organo dirigente dal livello provinciale a quello nazionale per la metà deve essere formato da rappresentanti designati dai livelli sottostanti.
E gli organi dirigenti dovranno avere una dimensione numerica tale da consentire un’effettiva discussione politica e delle deliberazioni consapevoli, perché quando si è in troppi nessuno decide nulla e poi si decide in tre. Questo bisogna dirlo, e correggerlo!
Inoltre, noi dobbiamo fissare che, qualunque sia il sistema elettorale per il parlamento nazionale, la grande maggioranza delle candidate e dei candidati dovrà essere determinata dai livelli territoriali con metodo democratico. Se facciamo così, allora io credo davvero che lo scorrimento fra esperienze territoriali e nazionali sarà il meccanismo fisiologico con cui procedere alla selezione delle classi dirigenti e al loro rinnovamento anche generazionale. Altrimenti, non ci si riesce, si fa solo cooptazione. Questa è la mia profonda convinzione.
Il Partito Democratico, per definizione, è pluralista. Il pluralismo deriva dai confronti congressuali. Il partito persegue la parità di genere. Il pluralismo si esercita in forme tali da garantire l’espressione univoca delle posizioni del partito. E ciò significa, fatta ovviamente salva la più larga libertà di espressione e la piena partecipazione al dibattito interno al partito, ai gruppi consiliari e parlamentari, l’accettazione del principio di maggioranza e del vincolo alla posizione comune nelle sedi istituzionali.
Le eccezioni a questo principio, perché sicuramente ci sono delle eccezioni, devono essere espressamente previste da un organismo di garanzia di rango statutario.
Credo che il partito sia anche un’associazione culturale, che promuove cultura politica, che si alimenta nella ricerca e nel dibattito critico e che vive in una osmosi col vasto, articolato mondo dell’intellettualità democratica. Quindi il partito deve produrre una lettura critica della società, produrre formazione, vivere un rapporto attivo con le forze intellettuali. Non possiamo spendere tutti i soldi che abbiamo in comunicazione; bisogna che li spendiamo un pò anche in analisi, in ricerca, in aggiornamento culturale.
Abbiamo risorse enormi, organizzate in associazioni e fondazioni con cui avere un rapporto anche stabile. E dico anche che il partito è anche una comunità di persone, di donne, di uomini e deve produrre una socializzazione a modo nostro. Quindi, per me, le iniziative a dimensione popolare, le feste, sono una parte costitutiva dell’attività di partito.
Non vedo per quale deviazione mentale la promozione di nuovi strumenti di comunicazione da incoraggiare senza titubanze dovrebbe contraddire questo assunto. Non vedo perché.
Il PD si deve dare forme organizzate, flessibili, temporanee, permanenti, associative per garantire rapporti con le organizzazioni sociali, del lavoro, dell’impresa, dei consumatori, del volontariato e questo deve avvenire ad ogni livello dell’organizzazione.
E il partito deve organizzare la rete comunicativa dal basso verso l’alto, ogni sede deve essere un nodo della grande rete on line del partito. Poi la cosa essenziale: il partito deve avere la massima cura, ad ogni livello, della sua autonomia politica. Credo che questo sia un punto dirimente. Ad ogni livello si devono determinare le condizioni di questa autonomia, che a volte sono condizioni di tipo anche materiale-organizzativo.
Ad ogni livello il ruolo di direzione del partito e di leadership istituzionali deve esser tenuti distinti. Non deve, in premessa, esistere automatismo fra ruoli di direzione del partito e candidature a compiti istituzionali. Sulla base di queste essenziali indicazioni, credo abbastanza precise,
(e altre ne potrei produrre,) io dico che si deve procedere con immediatezza alle modifiche allo statuto, alla revisione degli assetti organizzativi degli organismi di direzione politica, e dell’attribuzione delle risorse finanziarie.
Quando mi capitò, venti mesi fa, di definire partito liquido il rischio che avevamo davanti, mi si volle descrivere come un partitista vecchio stile, pronto a fare la riedizione di una specie di primato del partito. Era esattamente il contrario e forse ora lo si può capire meglio. Un partito non è mai un fine, è un mezzo, è uno strumento per promuovere cambiamenti utili alla vita collettiva; (come avviene per ogni associazione, la nostra ragione sociale è fuori di noi.)
La ragione sociale del partito è il Paese e se vogliamo essere utili al Paese dobbiamo essere un partito che funziona, che crea solidarietà ed appartenenza e che traduce la partecipazione in iniziativa esterna, senza farla girare su se stessa. Questo è molto semplicemente quello che penso e quello su cui voglio confrontarmi.
Ho finito cari amici e compagni. Ho cercato di metterci poca retorica e un pò di chiarezza. Spero di esserci riuscito. Dicevo all’inizio che in questo momento serve la testa. Concludendo, voglio dirvi però che ci vuole anche il cuore, ma il cuore non deve battere tanto per il leader o per il partito.
Mentre guardiamo avanti, ricordiamoci per un attimo, non solo delle responsabilità enormi che abbiamo nel futuro, ma anche di quelle che abbiamo rispetto al passato. Centocinquant’anni nei quali tanta gente, pronunciando le nostre stesse parole, le ha pagate ad un prezzo ben più alto del nostro.
Dico che se andassimo nel futuro senza sentire questo legame, saremmo come astronauti persi nello spazio. Il cuore deve battere soprattutto per l’antica e modernissima idea che questo mondo e questo paese possono essere davvero concretamente un pò più umani e un pò più giusti.
Io dico che chi ci crede è giovane e che è vecchio chi non ci crede più.
GRAZIE
Roma 1 luglio 2009
tatro Ambra Jovinelli
"CARITAS IN VERITATE": CHE IL DIBATTITO ABBIA INIZIO!
Credo che sia opportuno approfondire e confrontarci sul “modello” sociale che il Papa propone e ci invita a seguire e sulle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere questa Enciclica. Forse perché nel Globo è venuta meno la politica , quella con la famosa “P” maiuscola? Che la religione del “liberismo” accompagnato dalla totale assenza di Valori, abbia preso il sopravvento sul Credo religioso?
Personalmente, a primo impatto, condivido la visione e l’impostazione che affida al ruolo dello Stato ed i valori ed i contenuti che dovrebbero ispirare e motivare tutto il contesto sociale.
Non mi è chiaro il concetto "dell'autorità politica su più piani": verticali o orizzontali?A parer mio questa differenza è sostanziale.
Rimane fermo sul punto del grande tema della vita, non ci si poteva aspettare altro dal Papa cattolico, perciò non mi soffermerei su questa discussione: viva Dio stiamo ancora in uno Stato laico!
Ma a proposito di laicità dello Stato, di rapporto Stato/Chiesa- Politica/Chiesa, non trovo passaggi chiari al riguardo.
Occorrerà, per una migliore comprensione, un’attenta lettura del documento per esteso.
Che il dibattito abbia inizio!
A presto. Silvia
L’Enciclica sociale (parte 1)
La forza della caritas
Nell’incipit dell’enciclica Benedetto XVI spiega il nesso essenziale tra carità e verità. Paragrafo 1. La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. L’amore—«caritas»—è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8, 22). Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, «si compiace della verità» (1 Cor 13, 6). Tutti gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico: amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell’amore e della verità e ci svela in pienezza l’iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr Gv 14,6).
Non c’è amore senza giustizia
Senza il nesso tra carità e verità non sarebbero possibili né la giustizia né la ricerca del bene comune: l’amore sarebbe solo una «riserva di buoni sentimenti». 6. «Caritas in veritate» è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell’azione morale. Ne desidero richiamare due in particolare, dettati in special modo dall’impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune. La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del «mio» all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è «suo», ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso «donare» all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. (...).
La sfida della verità
Senza verità non è possibile un autentico agire sociale e quindi la necessaria revisione del modello di sviluppo 9. L’amore nella verità – caritas in veritate – è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante (...).
La crisi come occasione
Bisogna reagire alla crisi con fiducia: poiché ci impone di cercare nuove regole, può diventare un’opportunità 21 (...)La complessità e gravità dell’attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente.
Mobilità e precariato
La deregolamentazione del lavoro rischia di condurre le persone al degrado umano 25. La mobilità lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi perché capace di stimolare la produzione di nuova ricchezza e lo scambio tra culture diverse. Tuttavia, quando l’incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale.
L’enciclica sociale (parte 2)
Eliminare la fame porta la pace
Eliminare lo scandalo della fame nel mondo è un imperativo etico e la via per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta 27. In molti Paesi poveri permane e rischia di accentuarsi l’estrema insicurezza di vita, che è conseguenza della carenza di alimentazione: la fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali non è consentito, come aveva auspicato Paolo VI, di sedersi alla mensa del ricco epulone. Dare da mangiare agli affamati (cfr Mt 25, 35.37.42) è un imperativo etico per la Chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del suo Fondatore, il Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuto, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato dal punto di vista nutrizionale, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o dall’irresponsabilità politica nazionale e internazionale (...). È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni (...).
Il mercato senza fiducia
L’economia di mercato non funziona senza forme interne di solidarietà e di fiducia 35. Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave (...).
Impresa e responsabilità sociale
L’impresa non si riduce all’interesse dei suoi proprietari: ha responsabilità sociali 40. Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l’impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all’orizzonte. Uno dei rischi maggiori è senz’altro che l’impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia «responsabilità sociale» dell’impresa. Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma de ve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa (...). Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi (...).
Il ruolo dello Stato
Anche l’autorità politica va distribuita su più piani 41. Nel contesto di questo discorso è utile osservare che l’imprenditorialità ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all’imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall’altro. In realtà, l’imprenditorialità va intesa in modo articolato (...). Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo. Anche l’«autorità politica» ha un significato plurivalente, che non può essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un nuovo ordine economico- produttivo, socialmente responsabile e a misura d’uomo. Come si intende coltivare un’imprenditorialità differenziata sul piano mondiale, così si deve promuovere un’autorità politica distribuita e attivantesi su più piani. L’economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i governi ad una più forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze (...).
Sessualità e crescita demografica
La crescita demografica non impedisce lo sviluppo. Occorre un’apertura responsabile alla vita 28. (...) Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l’aborto. Nei Paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale. Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promuovendo talvolta nei Paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l’eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico. L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo (...). 44. (...) Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all’importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell’uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell’esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l’educazione sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica, con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal «rischio» procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire e disattendere il significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite (...). A tutto ciò si deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo, rispetto allo Stato e alle sue politiche restrittive, nonché un’appropriata educazione dei genitori. L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica(...).
L’enciclica sociale (parte 3)
I doveri dell’uomo verso l’ambiente
La natura non è un tabù intoccabile né si deve abusarne: l’uomo deve averne cura 48. Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera. Se la natura, e per primo l’essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni – materiali e immateriali – nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio. La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm 1, 20) e del suo amore per l’umanità. È destinata ad essere «ricapitolata» in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1, 19-20). Anch’essa, quindi, è una « vocazione ». La natura è a nostra disposizione non come «un mucchio di rifiuti sparsi a caso », bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per «custodirla e coltivarla » (Gn 2, 15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l’uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l’ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento (...).
Il governo della globalizzazione
La globalizzazione va governata da un’autorità organizzata in modo sussidiario e divisa in vari livelli decisionali 57. (...)La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace.
Rispettare i diritti di ogni migrante
La migrazione va governata, come ogni fenomeno della globalizzazione, ma senza dimenticare i diritti umani 62. Un altro aspetto meritevole di attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il fenomeno delle migrazioni. È fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale. Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo. Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il fenomeno, com’è noto, è di gestione complessa; resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d’origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione.
I nuovi compiti dei sindacati
Anche le organizzazioni sindacali devono strutturarsi per affrontare i problemi del mercato globale: e tutelare anche i non iscritti 64. Riflettendo sul tema del lavoro, è opportuno anche un richiamo all’urgente esigenza che le organizzazioni sindacali dei lavoratori, da sempre incoraggiate e sostenute dalla Chiesa, si aprano alle nuove prospettive che emergono nell’ambito lavorativo. Superando le limitazioni proprie dei sindacati di categoria, le organizzazioni sindacali sono chiamate a farsi carico dei nuovi problemi delle nostre società: mi riferisco, ad esempio, a quell’insieme di questioni che gli studiosi di scienze sociali identificano nel conflitto tra persona-lavoratrice e persona-consumatrice. Senza dover necessariamente sposare la tesi di un avvenuto passaggio dalla centralità del lavoratore alla centralità del consumatore, sembra comunque che anche questo sia un terreno per innovative esperienze sindacali. Il contesto globale in cui si svolge il lavoro richiede anche che le organizzazioni sindacali nazionali, prevalentemente chiuse nella difesa degli interessi dei propri iscritti, volgano lo sguardo anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati. La difesa di questi lavoratori, promossa anche attraverso opportune iniziative verso i Paesi di origine, permetterà alle organizzazioni sindacali di porre in evidenza le autentiche ragioni etiche e culturali che hanno loro consentito, in contesti sociali e lavorativi diversi, di essere un fattore decisivo per lo sviluppo. Resta sempre valido il tradizionale insegnamento della Chiesa, che propone la distinzione di ruoli e funzioni tra sindacato e politica. Questa distinzione consentirà alle organizzazioni sindacali di individuare nella società civile l’ambito più consono alla loro necessaria azione di difesa e promozione del mondo del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non rappresentati, la cui amara condizione risulta spesso ignorata dall’occhio distratto della società.
La finanza sostenga il vero sviluppo
La finanza appiattita sul breve termine ha funzionato male. Gli operatori riscoprano il fondamento etico della loro attività a sostegno del vero sviluppo 65. Bisogna, poi, che la finanza in quanto tale, nelle necessariamente rinnovate strutture e modalità di funzionamento dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l’economia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla miglior produzione di ricchezza ed allo sviluppo. Tutta l’economia e tutta la finanza, non solo alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell’uomo e dei popoli. È certamente utile, e in talune circostanze indispensabile, dar vita a iniziative finanziarie nelle quali la dimensione umanitaria sia dominante. Ciò, però, non deve far dimenticare che l’intero sistema finanziario deve essere finalizzato al sostegno di un vero sviluppo. Soprattutto, bisogna che l’intento di fare del bene non venga contrapposto a quello dell’effettiva capacità di produrre dei beni. Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non devono mai essere disgiunti. (...) Anche l’esperienza della microfinanza, che affonda le proprie radici nella riflessione e nelle opere degli umanisti civili – penso soprattutto alla nascita dei Monti di Pietà –, va rafforzata e messa a punto, soprattutto in questi momenti dove i problemi finanziari possono diventare drammatici per molti segmenti più vulnerabili della popolazione, che vanno tutelati dai rischi di usura o dalla disperazione (...).
Fonte: il Corriere della Sera del 07/07/09
sabato 4 luglio 2009
Bersani,Se ci avesse salutato con un *care democratiche e cari democratici* anziché usare *amici e compagni*, sarei stata più contenta.....
Democratici davvero, per l'Italia (di Rosy Bindi)
Se ci avesse salutato con un "care democratiche e cari democratici" anziché usare "amici e compagni", sarei stata più contenta. Ma il discorso con cui Pierluigi Bersani ha motivato la sua candidatura è una buona base di partenza.
Ha affrontato, senza retorica e senza inutili asprezze, le difficoltà in cui da due anni versa il progetto del Pd e ha tracciato con passione e concretezza le linee di un progetto che ci permetta di tornare a vincere e governare il paese. Ha ribadito che la ragione sociale del Pd è fuori di noi: è l'Italia.
La nostra sfida è quella di costruire un partito che parli a tutti gli italiani perché ha una visione più giusta e più libera di società. Un partito che sa indicare l'interesse generale e offrire le risposte giuste per affrontare in modo positivo una durissima crisi economica.
Nell'intervista al Corriere della sera avevo spiegato il mio sostegno alla sua candidatura a partire dalla necessità di costruire un partito capace di restituire al Pd la credibilità di una forza che si candida a governare il Paese. E ieri Bersani ha mostrato la solidità di una sfida riformatrice che ha nell'Ulivo la propria ispirazione originaria e si da la missione di ricostruire il campo di una vera alternativa alla destra di governo.
Nel documento che insieme ad alcuni amici dei democraticidavvero stiamo elaborando per qualificare le proposte di Bersani abbiamo individuato i temi che ci stanno a cuore. Alcuni sono stati indicati anche ieri all'Ambra Jovinelli: da una ritrovata centralità del lavoro nelle politiche di sviluppo alla necessità di investire sui giovani e le donne per liberare finalmente nuove energie e sbloccare un paese troppo vecchio sotto tanti punti di vista; da un welfare più inclusivo che investe sulla formazione, il sapere e la salute ad un nuovo approccio all'immigrazione per coniugare legalità, sicurezza e solidarietà.
Ma non sarebbe leale né corretto tacere su alcuni nodi ancora da sciogliere e sui quali vogliamo qualificare il nostro contributo congressuale.
Consideriamo un buon punto di partenza quanto Bersani ha detto sulla legge elettorale e l'assetto istituzionale. Ma vogliamo più chiarezza sul modello di democrazia bipolare e su coerente legge elettorale che assicuri governabilità e alternanza.
Quando mi sono candidata alla segreteria del Pd, tutti insieme abbiamo fatto una battaglia per affermare l'idea di un Pd davvero plurale e democratico. Un partito in cui tutte le tradizioni e le culture politiche che dal `96 si sono riconosciute nell'idea dell'Ulivo stanno insieme con pari dignità e dove nessuno risulta egemone o correttivo rispetto agli altri.
Le elezioni europee sono state una conferma ulteriore che la crisi della socialdemocrazia non è stata superata neppure dall'innesto con la liberademocrazia. Anche la cosiddetta "terza via" risulta inadeguata. Essere partito post ideologico significa affermare un pensiero politico autenticamente democratico lasciando alle spalle modelli e categorie di interpretazione ormai logore e incapaci di rispondere a nuovi problemi e nuovi bisogni delle società contemporanee.
Questo sforzo di elaborazione politica e culturale sarà tanto più fecondo e innovativo se saprà assumere come essenziale e fondante l'ispirazione del cattolicesimo democratico, se il principio della laicità e autonomia della politica e il primato della persona umana entrano come la bussola che orienta un progetto complessivo di cambiamento della società In questo progetto del Pd i cattolici non sono aggiuntivi, non sono una componente a cui si chiede di "interpretare" le istanze del mondo cattolico italiano.
Il Pd che abbiamo in mente abbandona l'idea che nel partito nuovo il pluralismo etico, politico, culturale e sociale della società italiana sia rappresentato da singole parti o componenti identitarie. Questa è una formula vecchia di politica e di partito che l'Ulivo aveva provato ad archiviare mettendo in campo la fatica della contaminazione e della sintesi. Occorre riprendere questo percorso, senza ambiguità e senza furbizie. Altrimenti si riproducono i vizi che in questi due anni hanno frenato, come una pesante zavorra del passato, la fase costituente del nuovo partito.
A noi interessa definire l'identità democratica del Pd. Ma solo se il Pd, come tale, avrà l'ambizione e l'umiltà di esprimere tutta la ricchezza della società italiana, solo se le differenze non saranno vissute come un peso ma come quel valore aggiunto necessario a realizzare la nuova sintesi, potremmo dire di aver realizzato il nostro compito.
Questa identità è alla prova anche di un nuovo modello organizzativo. Le Primarie ad ogni livello sono per noi uno strumento di democrazia interna e di apertura alla società civile irrinunciabile. Devono essere utilizzate ad ogni livello per selezionare in modo trasparente la classe dirigente del partito regionale e nazionale e per tutte le cariche istituzionali. Primarie che vanno affinate e regolamentare in modo nuovo per evitare di assecondare forme più o meno plebiscitarie di consegna del potere a poche persone.
Il Pd che vogliamo deve essere scuola di democrazia e di libertà. Un partito che ascolta e dà voce agli iscritti e ai simpatizzanti e costruisce la propria unità di azione e di linea politica facendo leva sull'intelligenza, la lealtà e il senso di responsabilità dei propri militanti e dei propri dirigenti. Nel partito che vogliamo il principio di maggioranza, necessario a confermare scelte e decisioni collettive, non si confonde con la dittatura della maggioranza ma definisce l'orientamento di una comunità plurale che rispetta e valorizza la libertà di coscienza di ciascuno.
Occorre ritrovare questa dimensione di partito come comunità ricca e ampia, che vive rispettando in primo luogo l'impegno e i sacrifici quotidiani di migliaia di militanti e attivisti, che valorizza le competenze e non le appartenenze, le differenze e non le divisioni.
C'è un lungo cammino da fare. La mozione Bersani non è ancora pronta e nel gruppo che sta lavorando al testo c'è anche Giovanni Bachelet. Presto pubblicheremo sul sito il nostro documento ed abbiamo già in cantiere un primo incontro con Bersani, il prossimo 16 luglio a Roma. Vogliamo essere tanti e siamo determinati ad essere "democraticidavvero" per l'Italia.
Se ci avesse salutato con un "care democratiche e cari democratici" anziché usare "amici e compagni", sarei stata più contenta. Ma il discorso con cui Pierluigi Bersani ha motivato la sua candidatura è una buona base di partenza.
Ha affrontato, senza retorica e senza inutili asprezze, le difficoltà in cui da due anni versa il progetto del Pd e ha tracciato con passione e concretezza le linee di un progetto che ci permetta di tornare a vincere e governare il paese. Ha ribadito che la ragione sociale del Pd è fuori di noi: è l'Italia.
La nostra sfida è quella di costruire un partito che parli a tutti gli italiani perché ha una visione più giusta e più libera di società. Un partito che sa indicare l'interesse generale e offrire le risposte giuste per affrontare in modo positivo una durissima crisi economica.
Nell'intervista al Corriere della sera avevo spiegato il mio sostegno alla sua candidatura a partire dalla necessità di costruire un partito capace di restituire al Pd la credibilità di una forza che si candida a governare il Paese. E ieri Bersani ha mostrato la solidità di una sfida riformatrice che ha nell'Ulivo la propria ispirazione originaria e si da la missione di ricostruire il campo di una vera alternativa alla destra di governo.
Nel documento che insieme ad alcuni amici dei democraticidavvero stiamo elaborando per qualificare le proposte di Bersani abbiamo individuato i temi che ci stanno a cuore. Alcuni sono stati indicati anche ieri all'Ambra Jovinelli: da una ritrovata centralità del lavoro nelle politiche di sviluppo alla necessità di investire sui giovani e le donne per liberare finalmente nuove energie e sbloccare un paese troppo vecchio sotto tanti punti di vista; da un welfare più inclusivo che investe sulla formazione, il sapere e la salute ad un nuovo approccio all'immigrazione per coniugare legalità, sicurezza e solidarietà.
Ma non sarebbe leale né corretto tacere su alcuni nodi ancora da sciogliere e sui quali vogliamo qualificare il nostro contributo congressuale.
Consideriamo un buon punto di partenza quanto Bersani ha detto sulla legge elettorale e l'assetto istituzionale. Ma vogliamo più chiarezza sul modello di democrazia bipolare e su coerente legge elettorale che assicuri governabilità e alternanza.
Quando mi sono candidata alla segreteria del Pd, tutti insieme abbiamo fatto una battaglia per affermare l'idea di un Pd davvero plurale e democratico. Un partito in cui tutte le tradizioni e le culture politiche che dal `96 si sono riconosciute nell'idea dell'Ulivo stanno insieme con pari dignità e dove nessuno risulta egemone o correttivo rispetto agli altri.
Le elezioni europee sono state una conferma ulteriore che la crisi della socialdemocrazia non è stata superata neppure dall'innesto con la liberademocrazia. Anche la cosiddetta "terza via" risulta inadeguata. Essere partito post ideologico significa affermare un pensiero politico autenticamente democratico lasciando alle spalle modelli e categorie di interpretazione ormai logore e incapaci di rispondere a nuovi problemi e nuovi bisogni delle società contemporanee.
Questo sforzo di elaborazione politica e culturale sarà tanto più fecondo e innovativo se saprà assumere come essenziale e fondante l'ispirazione del cattolicesimo democratico, se il principio della laicità e autonomia della politica e il primato della persona umana entrano come la bussola che orienta un progetto complessivo di cambiamento della società In questo progetto del Pd i cattolici non sono aggiuntivi, non sono una componente a cui si chiede di "interpretare" le istanze del mondo cattolico italiano.
Il Pd che abbiamo in mente abbandona l'idea che nel partito nuovo il pluralismo etico, politico, culturale e sociale della società italiana sia rappresentato da singole parti o componenti identitarie. Questa è una formula vecchia di politica e di partito che l'Ulivo aveva provato ad archiviare mettendo in campo la fatica della contaminazione e della sintesi. Occorre riprendere questo percorso, senza ambiguità e senza furbizie. Altrimenti si riproducono i vizi che in questi due anni hanno frenato, come una pesante zavorra del passato, la fase costituente del nuovo partito.
A noi interessa definire l'identità democratica del Pd. Ma solo se il Pd, come tale, avrà l'ambizione e l'umiltà di esprimere tutta la ricchezza della società italiana, solo se le differenze non saranno vissute come un peso ma come quel valore aggiunto necessario a realizzare la nuova sintesi, potremmo dire di aver realizzato il nostro compito.
Questa identità è alla prova anche di un nuovo modello organizzativo. Le Primarie ad ogni livello sono per noi uno strumento di democrazia interna e di apertura alla società civile irrinunciabile. Devono essere utilizzate ad ogni livello per selezionare in modo trasparente la classe dirigente del partito regionale e nazionale e per tutte le cariche istituzionali. Primarie che vanno affinate e regolamentare in modo nuovo per evitare di assecondare forme più o meno plebiscitarie di consegna del potere a poche persone.
Il Pd che vogliamo deve essere scuola di democrazia e di libertà. Un partito che ascolta e dà voce agli iscritti e ai simpatizzanti e costruisce la propria unità di azione e di linea politica facendo leva sull'intelligenza, la lealtà e il senso di responsabilità dei propri militanti e dei propri dirigenti. Nel partito che vogliamo il principio di maggioranza, necessario a confermare scelte e decisioni collettive, non si confonde con la dittatura della maggioranza ma definisce l'orientamento di una comunità plurale che rispetta e valorizza la libertà di coscienza di ciascuno.
Occorre ritrovare questa dimensione di partito come comunità ricca e ampia, che vive rispettando in primo luogo l'impegno e i sacrifici quotidiani di migliaia di militanti e attivisti, che valorizza le competenze e non le appartenenze, le differenze e non le divisioni.
C'è un lungo cammino da fare. La mozione Bersani non è ancora pronta e nel gruppo che sta lavorando al testo c'è anche Giovanni Bachelet. Presto pubblicheremo sul sito il nostro documento ed abbiamo già in cantiere un primo incontro con Bersani, il prossimo 16 luglio a Roma. Vogliamo essere tanti e siamo determinati ad essere "democraticidavvero" per l'Italia.
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