martedì 1 luglio 2008

Rilanciare le speranze


Per quanto mi riguarda...... la speranza è...... "l'ultima a morire"....... non ci si può permettere di mollare......mai!
Ma, ahimè ! Ha ragione De Rita......"bisogna rilanciare le speranze" e non strumentalmente soffocarle. Un popolo senza speranze, vuoto, piatto, senza desideri, arreso alla realtà, demotivato, è soggetto alla manipolazione, è di facile gestione. Certi tipi di governo, hanno provocato e preferiscono tutt' oggi avere "un popolo non popolo", per imporre al meglio il loro potere.
Appello a tutti coloro che credono che ancora "si può fare!" Contrastiamo chi vuole spegnere la luce della speranza !
Silvia

Più paure che speranze, questo è il nodo di psicologia collettiva cui si va impiccando la nostra attuale società, sempre più pervasa da paure, inquietudini, preoccupazioni, ansie di ogni tipo; mentre le speranze sono poche, e la speranza (al singolare, cioè da tutti condivisa) resta una non praticata virtù teologale, estranea e lontana.
Governare una società di tal fatta è impegno di maledetta difficoltà e pericolosa ambiguità. La gente si ingabbia nelle sue singole paure ed esprime delle emotive pretese di pronta e specifica risposta ad ognuna di esse: per la paura di aggressioni, scippi e rapine chiede più forze dell'ordine ed addirittura l'esercito; per le paure destate dagli immigrati, chiede controlli, espulsioni, galera; per l'ansia del precariato dei figli, chiede pubblico consolidamento dei rapporti di lavoro; per la paura di non aver casa e/o non poter pagare le rate del mutuo vuole un deciso intervento statale di social housing; per la paura della vecchiaia e del connesso declino psicofisico, chiede una politica di long-term-care; per l'ansia delle morti sulle strade chiede una forte repressione istituzionale contro droghe ed alcol; per l'inquietudine creata dai rifiuti non raccolti e non trattati pretende commissari straordinari, poliziotti ed esercito. E via via, senza allungar troppo l'elenco, si arriva a paure e domande più sofisticate: per paura della globalizzazione si esprime voglia di protezionismo; e per la paura dell'egoismo dei localismi si ritorna alla fiducia nello Stato centrale.

Questo proliferante flusso di paure e di correlati interventi pubblici non è per ora bilanciato da un po' di speranza collettiva, o almeno di egoistiche speranze individuali; e neppure da una interpretazione di sintesi di quel che si vuole e quel che si fa. Il motto prevalente sembra il banale «io speriamo che me la cavo » degli impauriti studenti della maturità, motto del tutto regressivo in termini di impegni orientati al nuovo e al futuro.
Dalle tante paure nascono allora altrettante domande di pura rassicurazione che facilmente, specialmente in periodi elettorali, si declinano al singolare; diventando «domanda di sicurezza », termine magico, in nome del quale si coltiva, si ottiene, si sfrutta il consenso. Ma siccome le pretese di sicurezza sono molteplici, finiscono per essere molteplici e senza grande ordine le dirette risposte; con una galleria di annunci e provvidenze che non fa una politica, mentre la loro somma non fa una risposta socialmente convincente, anzi talvolta induce ad una ulteriore sensazione di paura e di insicurezza.
Ci vuole allora una cultura istituzionale complessa unificando le varie azioni in un'unica prospettiva politica: quella della «politica della sicurezza» sarebbe stata buona se non fosse stata usata troppo e in modo sconnesso rispetto alle nostre intime esigenze di coesione sociale e di qualità della vita. Lì intorno bisogna comunque restare, ma forse la vera novità di risposta sarebbe quella di rilanciare le speranze, anche se solo al plurale.

Fonte: Corriere della Sera
di: Giuseppe de Rita

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