Un anno segnato dal cambio nella guida spirituale della città: due stili agli antipodi
ma in entrambi i casi un’impronta forte e originale che si riflette anche sui laici
di ZITA DAZZI
Angelo Scola e Dionigi Tettamanzi
Alto e ceruleo, l’uno. Basso e sanguigno, l’altro. Erudito, cerebrale, perfino un po’ arcigno il primo. Popolare, semplice, sempre sorridente, il secondo. Come il giorno e la notte. Non potevano essere più diversi, i due cardinali che si sono dati il cambio alla guida della più importante diocesi del mondo, con un passaggio di consegne che è durato dallo scorso 28 giugno — quando papa Ratzinger ufficializzò la nomina di Angelo Scola arcivescovo di Milano — al 25 settembre, quando Dionigi Tettamanzi, simbolicamente, consegnò al suo successore il Pastorale che fu di Ambrogio, santo patrono .
Due uomini e due stili agli antipodi, che lasceranno ciascuno un’impronta forte e originale a due fasi storiche molto diverse della vita laica della città. La Milano sempre più secolarizzata che, dopo 17 anni di governo di centrodestra, proprio mentre nei palazzi della Curia si consumava l’avvicendamento dei cardinali, per la prima volta si è ritrovata ad avere un’amministrazione pubblica di sinistra. La Lega Nord e quel Popolo della libertà — tante volte bacchettati da Tettamanzi, paladino dei poveri e degli immigrati, e più volte insorti contro di lui chiedendone la cacciata — si sono trovati fuori dalla stanza dei bottoni proprio mentre a Milano era in arrivo un amministratore apostolico da molti inizialmente salutato come «il restauratore». Atteso con apprensione dai progressisti e dalle comunità del cristianesimo di base, Scola, si porta addosso un marchio di fabbrica indigesto per il cattolicesimo democratico milanese, essendo stato per molti anni uno dei pensatori di punta del movimento di Comunione e liberazione.
Il passaggio dall’episcopato di Tettamanzi a quello di Scola ha segnato in modo esplosivo e pieno di incognite il cambio di stagione in città. Innegabile lo sconcerto iniziale: Benedetto XVI era riuscito ad imporre per Milano il nome a cui pensava fin dall’inizio delle consultazioni fra i più importanti vescovi italiani. L’arrivo del lecchese Angelo Scola è stato vissuto, nelle prime fasi, come uno strappo alla tradizione che voleva la Diocesi ambrosiana saldamente in mano a un pastore di ispirazione progressista, attento più alla dottrina sociale del Concilio Vaticano II che alle complesse geometrie e dinamiche interne d’Oltretevere.
Tettamanzi, infatti, nei suoi dieci anni a Milano — dopo aver scontato un’accoglienza tiepida da parte dei fedeli disorientati, perché era anche lui inizialmente accompagnato dalla fama di “reazionario” — in realtà ha saputo raccogliere e non far rimpiangere l’eredità di Carlo Maria Martini, altra figura indimenticabile per i milanesi, armato di quel carisma ieratico che ancora oggi, tanti anni dopo il suo ritiro dalla scena pubblica, lo fa ritenere una guida morale per tanta parte della Chiesa italiana, e non solo per la Chiesa.
Scola, sbarcando a Milano dal nobile Patriarcato di Venezia, crocevia internazionale del dialogo interreligioso ma diocesi di piccole dimensioni, sapeva che non sarebbe stato un compito facile fare i conti con la popolarità raggiunta da "don Dionigi" tra il popolo delle 1107 parrocchie ambrosiane. Tettamanzi, fra l’altro, se ne va da Milano lasciando un cadeaux da 14 milioni di euro: il Fondo famiglia e lavoro che ha aiutato in due anni oltre 4mila disoccupati. Scola non ha fatto mistero fin dall’inizio di sentirsi quasi «impaurito» dal compito affidatogli. E per questo ha scelto da subito lo stile della mano tesa, elevando umilmente, fin dalla prima omelia nel giorno di ingresso in diocesi, un appello: «Carissimi, ho bisogno di tutti voi per svolgere nella gioia, e non nel lamento, il gravoso compito che mi aspetta».
Azzeccata, dunque, la scelta di debuttare in società incontrando in affollatissime assemblee pubbliche i diversi mondi di Milano: il volontariato, la politica, l’economia, la cultura. In ognuno di questi incontri, tra ottobre e novembre, Scola ha attentamente ascoltato il racconto di una città che non conosceva. E ha cominciato a spiegare il suo modo di intendere la fede, la Chiesa e il rapporto con la società. Uno stile che — inutile negarlo — ha un sapore a cui ci si deve abituare. Chi era ormai abituato a vedere Tettamanzi sguazzare nel fango del campo rom di via Triboniano e ad ascoltare le sue chilometriche prediche ispirate soprattutto dal buon senso antico, ha cominciato a far conoscenza con un cardinale che invece, in una o due pagine di omelia, condensa anni di studio e citazioni dotte che vanno come minimo da Tommaso d’Aquino a Von Balthasar passando per MurphyO’Connor.
I due, va detto, coabitano in diocesi senza pestarsi i piedi. Anzi: Scola non perde occasione per coinvolgere il predecessore in iniziative che li vedono affiancati. Se Carlo Maria Martini, dopo avere lasciato l’incarico, sparì a Gerusalemme per molti anni, Tettamanzi è a portata di mano, avendo scelto di consumare la pensione nel centro di spiritualità di Triuggio, a due chilometri da Macherio e a un’ora di macchina da Milano: anche se in città dice di venire «quasi solo per andare dal dentista». Non sembra passarsela male, l’arcivescovo emerito Dionigi, in quel di Triuggio, dove trascorre il tempo «riposando, scrivendo e rispondendo, rigorosamente a mano, alle tantissime lettere piene di affetto che mi arrivano dai fedeli ambrosiani».
Fonte: Repubblica Milano.it
Compagno di passeggiate e di lunghe chiacchiere è don Luigi Bandera, direttore della struttura, che con il pacioso Tettamanzi ha instaurato un clima molto poco formale, fatHto anche di scherzi e risate. A Milano, intanto, il serissimo Scola predica e si dedica a quella che ha indicato essere la sua missione fin dall’insediamento: far sì che «Milano, metropoli illuminata, operosa e ospitale, non perda di vista Dio».